“Traccie” di una situazione grammatica
L’italiano, spiegano i linguisti, si evolve: è natura. Qualche mese fa fece scalpore un libro di Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, in cui l’illustre autore sosteneva che l’uso del congiuntivo è in calo, ma non è il caso di farne un dramma: nel parlato tende a essere sostituito dall’indicativo (“Se mi avessi chiamato, sarei venuto” diventa “Se mi chiamavi, venivo”). Ma è un’abitudine che risale a Dante e anche più indietro. I “casi che infiammano gli animi e che a molti tolgono il sonno”, scrive Sabatini in Lezioni di italiano (Mondadori) sono molti: oltre al congiuntivo, gli anacoluti (li usava già Manzoni), i pleonasmi, le frasi segmentate (“A lui, gli piaceva”), i pronomi lui e lei usati come soggetti (ci sono testimonianze dal Duecento fino a Tomasi di Lampedusa ), il “gli” polivalente (usato anche come plurale e femminile). Sono altri gli errori che il presidente onorario della Crusca non vorrebbe mai vedere, per esempio la punteggiatura gettata a caso disastrosamente come è avvenuto in un decreto legislativo del governo il 18 aprile 2016. Come diceva Cesare Pavese, “fra gli errori ci sono quelli che puzzano di fogna e quelli che odorano di bucato”.
TUTTO BENE? Non proprio. L’altro giorno è apparsa sul sito del ministero della Pubblica istruzione la parola “Traccie” che però in italiano si scrive indubbiamente “tracce”. Cosa mai sarà una “i” di troppo? È solo una vocale. Svista, lapsus calami, disattenzione occasionale? Chissà. Potremmo però ricordare che non più tardi di quindici giorni fa la ministra Fedeli in persona con un miracolo ha fatto incontrare Vittorio Emanuele III e Napoleone, nati a cent’anni di distanza. Per non dire del celebre discorso dei neutrini, in cui Mariastella Gelmini ( allora ministro dell’Istruzione) ci informava della costruzione di un tunnel tra il Cern di Ginevra e il Gran Sasso. Ricordate le interviste delle Iene fuori dal Parlamento? Onorevoli della Repubblica convinti che la sinagoga sia il luogo dove le donne ebree vanno a pregare o che il Darfur sia “un modo di comportarsi con il mangiare”. Ieri, nel suo Buongiorno su La Stampa, Mattia Feltri ha elencato una lunga serie di strafalcioni nelle tracce degli esami di maturità: date errate, attribuzioni errate, Bonaventura da Bagnoregio scambiato per San Tommaso. Ma qui il punto non è farsi due risate a spese dei politici o dei funzionari ministeriali, esercizio privo di utilità e nemmeno troppo divertente. Il fatto è che se il Ministero fa errori come “traccie” o strafalcioni storici come quello del Re e Napoleone, è la scuola (la buona scuola!) a perdere qualunque tipo di autorevolezza. Come può il sistema scolastico esercitare autorità nei confronti degli studenti, alla luce dei sempre più frequenti errori?
In un delizioso pamphlet del 2015, La situazione è grammatica (Einaudi) il linguista Andrea De Benedetti annota: “L’errore rappresenta un anticorpo naturale alle incoerenze della lingua, una sacrosanta ribellione all’arbitrarietà di certe regole, e da questo punto di vista, lungi dall’essere una malattia da curare e di cui vergognarsi, può essere segno di un’intelligenza perfettamente in salute”. Ignorantia legis non excusat, però “commettere errori non è una colpa”. Lo diventa “se non fai nulla per evitarli, se l'errore non è un atto in qualche modo creativo ma è il frutto guasto di pigrizia e conformismo”. Ed ecco che torniamo alle nostre “traccie”: lo Stato che insegna non può con tanta frequenza essere pigro, sciatto e conformista.