Peccato, il ministero ha scelto proprio il Caproni sbagliato
La mia città dagli amori in salita, Genova mia di mare tutta scale e, su dal porto, risucchi di vita viva fino a raggiungere il crinale di lamiera dei tetti
SIRENA 1952
Inomi di cui sopra, di caratura internazionale: tutti, compreso l’irregolare Campana, poeti colti, che mescolano la vocazione personale a suggestioni dalla poesia europea e (per alcuni, si veda il caso di Sereni) non solo europea del Novecento.
Un patrimonio così ricco è ben rappresentato nelle antologie del triennio fino a Saba e Montale compresi (ma non Solmi, rimosso!); rappresentato, ma con variabili incostanti, a seconda dell’antologizzatore, nel caso di Sereni, cui si dovrebbe rendere lo stesso onore che a Montale. Per contro, Erba, che con
Il male minore ci ha dato una delle maggiori raccolte degli anni Cinquanta, è pressoché ignorato.
E CAPRONI? Giorgio Caproni, quanto alla diffusione della sua opera nelle scuole, sta “come color che son sospesi”: si vedano alcune tra le più recenti antologie: Claudio Giunta ( Cuori intelligenti, edizione rossa, DeA Scuola/Garzanti Scuola) gli dedica la bellezza di due poesie (e lasciamo perdere le integrazioni digitali che i ragazzi sono portati a non leggere); fa un po’ meglio Novella Gazich, Lo sguardo della letteratura
(Principato, edizione Orange) con quattro poesie. In entrambi i casi del tutto insufficienti per rendere un’idea che non sia superficiale dell’autore. Mentre andrebbero copiosamente rappresentate le sue raccolte più intense e poeticamente più riuscite: Il passaggio di Enea
(1943-1955), che è il vertice della sua produzione ed è calato negli anni della guerra e del dopoguerra; Il se
me del piangere (1952-1958), incentrato sulla figura della madre, Anna Picchi, e il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee
(1960-1964).
Ma ecco spuntare contro ogni previsione una lirica di Caproni, Versicoli quasi ecologici, apparsa postuma – l’autore morì nel 1990 – co- me primo tema della maturità 2017, dedicato all’analisi del testo. “Tosta e bella la scelta di Caproni”, ha commentato inopinatamente qualcuno. Non a ragione, perché si tratta di un Caproni davvero minore.
LA FORZAdelle sue raccolte migliori sta nell’effusività lirica dolorosa e cantabile (si vedano gli “ahi”, “ohi”, “ah”, “oh” ripetuti), sorvegliata da un ritmo tenuto alto dagli enjambements continui. E se è lecito un paragone già segnalato dalla critica, siamo di fronte a una specie di Torquato Tasso novecentesco, letterario nel tono che risulta tuttavia scientemente abbassato dal fondo popolare che si nasconde dietro la stessa letterarietà.
Perché le storie di Caproni sono quelle degli umili e dei semplici, calate nelle sue città, Genova e Livorno: bar di gente qualunque, latterie, serventi che lavano all’alba “i nebbiosi bicchieri”; “mani/ di gelo sulla segatura/ rancida”; “uomini miti che entrati in cucina/ schiudono il rubinetto”.“La mia città dagli amori in salita,/ Genova mia di mare tutta scale/ e, su dal porto, risucchi di vita/ viva fino a raggiungere il crinale/ di lamiera dei tetti, ora con quale/ spinta nel petto, qui dove è finita/ in piombo ogni parola, iodio e sale/ rivibra sulla punta delle dita/ che sui tasti mi dolgono?... Oh il carbone/ a Di Negro celeste! oh la sirena/ marittima, la notte quando appena/ l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena/ del futuro s’è aperta col bandone/ scosso di soprassalto da un portone”.
La sofferenza del vivere, ma con dignità, e che sa trovare anche barlumi di luce: “Annina, bianca e nera,/ bastava a far primavera”. Cosa può dire, invece, uno studente ignaro di fronte a Versicoli quasi ecologici, se non consentire con la protesta e la speranza del poeta immerse in versi fiacchi dove l’enjambement è meccanico? Gli si fa un torto: la poesia in lui è bellezza, grazia sofferta, tensione lirica, esilio, e qui manca.