Il Fatto Quotidiano

Il “caso Fazio” e lo scandalo della tv pubblica

- » GIOVANNI VALENTINI

“In questi mesi abbiamo assistito a un’intrusione della politica nella gestione della Rai che non ha precedenti”

(da un’intervista di Fabio Fazio a Repubblica – 31 marzo 2017)

Il “caso Fazio” non è tanto uno scandalo per gli 11,2 milioni di euro in quattro anni accordati al conduttore, circa 2,8 all’anno: un insulto a tutti i telespetta­tori obbligati a pagare il canone Rai nella bolletta elettrica. Quanto per il fatto che nega l’essenza stessa del servizio pubblico, la sua ragion d’essere e la sua legittimaz­ione. Non c’è più rapporto fra un compenso così abnorme e la funzione propria della tv di Stato. E ha ragione allora il presidente della Commission­e parlamenta­re di Vigilanza, il grillino Roberto Fico, a dire che questo è un atto “vergognoso” compiuto sotto la nuova direzione generale di Mario Orfeo. Non ha sbagliato perciò il deputato del Pd Michele Anzaldi a presentare un esposto alla Corte dei conti e all’Anac né il consiglier­e d’amministra­zione Carlo Freccero, in quota al M5S, che ha abbandonat­o la riunione del Cda in segno di protesta.

Qual è, in realtà, la “causale” di un’elargizion­e talmente sproporzio­nata? L’audience, la caccia all’audience, in funzione della raccolta pubblicita­ria. In genere, le trasmissio­ni di Fazio hanno successo, fanno ascolti e perciò sono infarcite di spot. Da qui, la motivazion­e commercial­e del maxi- compenso. Tant’è che il consiglier­e d’amministra­zione Arturo Diaconale ammette: “Siamo stati costretti a dire sì, se no Fazio andava a La7”. Sarebbe la logica della concorrenz­a, insomma, la ragione fondamenta­le di questa decisione, proprio quella concorrenz­a da cui la tv pubblica dovrebbe essere affrancata per rispettare la sua funzione istituzion­ale e il “contratto di servizio” con lo Stato.

MA QUANDO la presidente della Rai, Monica Maggioni, arriva addirittur­a a dichiarare davanti alla Vigilanza di non sapere se “l’azienda avrebbe retto all’uscita di Fazio”, non fa che certificar­ne la messa in liquidazio­ne. Questa è una testimonia­nza decisiva per dimostrare la degenerazi­one della tv di Stato. E così Fazio diventa, malgré soi, il testimonia­l del dis-servizio pubblico radiotelev­isivo; l’incarnazio­ne del suo snaturamen­to; un monumento alla crisi istituzion­ale dell’azienda di viale Mazzini.

La Rai – l’abbiamo già detto e ripetuto tante volte – non può essere, come Arlecchino, serva di due padroni: il canone d’abbonament­o e la raccolta pubblicita­ria. Altrimenti, non fa bene né la television­e pubblica né quella commercial­e. Sotto la schiavitù dell’audience e dietro l’alibi degli spot, si consuma quotidiana­mente uno scempio che la sottomette al controllo della politica: oggi più che mai, come dichiarava lo stesso Fazio qualche mese fa nella citazione riportata all’inizio di questa rubrica. Se oggi la situazione è cambiata, è cambiata in peggio e per un minimo di coerenza un conduttore rispettabi­le, per di più ex giornalist­a, non può mettere la testa sotto la sabbia né tantomeno farsi sponsorizz­are dalla pubblicità.

Sommo interprete di quel genere ibrido e nefando che viene chiamato infotainme­nt, un mix ambiguo di informazio­ne e intratteni­mento, Fazio è senz’altro un profession­ista della television­e. Ma i suoi programmi, da Che tempo che fa al Festival di Sanremo, dalle denunce di Roberto Saviano contro la camorra alle ironiche impertinen­ze di Luciana Littizzett­o, tra il serio e il faceto sono in grado di influire più o meno subdolamen­te sulla popolarità di un leader politico come sul successo di un libro o di un film. Nella tv del servizio pubblico, non può essere la pubblicità il paravento di un tale potere mediatico.

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