Il Fatto Quotidiano

“Oggi è impossibil­e chiudere la rotta del Mediterran­eo”

Roberto Mignone, Unhcr

- » STEFANO FELTRI

La Libia è ancora adesso così pericolosa che l’Onu non riesce neppure ad aprire un quartier generale Realizzere­mo dei siti a Sud per informare chi arriva sui rischi della traversata e aiutarlo a tornare indietro

Due giorni fa l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, è riuscita a trovare un posto sicuro per sei donne in un altro Paese. Presto altre sette verrano messe al riparo, dopo che l’Unhcr è riuscita a farle uscire – perché titolari dello status di rifugiato – dalle carceri dove erano detenute, “avevano sofferto terribili abusi e tenute in schiavitù da un gruppo armato”. Perché in Libia si procede così, goccia dopo goccia, persona dopo persona, nel posto più pericoloso del mondo. L’unico Paese in cui i funzionari internazio­nali dell’Unhcr non possono avere una base: solo il personale locale libico (40 persone) ha attività permanenti sul territorio. Il nuovo responsabi­le dell’Unhcr in Libia è un italiano, si chiama Roberto Mignone, un veterano delle aree di crisi, è arrivato due mesi fa da Ginevra, come parte di uno sforzo crescente dell’Unhcr nell’area. Mignone deve operare da Tunisi, con frequenti missioni in Libia ma senza poter installare lì il quartier generale. Troppo rischioso, la scorsa settimana un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato da una milizia. Anche con questi limiti, negli ultimi 18 mesi l’Unhcr, guidato dall’alto commissari­o Filippo Grandi, è riuscita a far rilasciare 900 rifugiati e richiedent­i asilo dai centri di detenzione. Oltre 90.000 persone nel 2017 hanno usato la Libia come punto di partenza verso l’Italia. Più di 2.000 sono morte in mare.

Roberto Mignone, perché lavorare in Libia è così difficile?

Io sono stato in Sud Sudan, in Iraq, nello Yemen, in Somalia, posti molto pericolosi, ma lì le Nazioni Unite possono operare con staff internazio­nale basato nel Paese. Mentre dalla Libia sono dovute uscire e ora tornarci è estremamen­te complicato. Inoltre la Libia non ha firmato la Convenzion­e di Ginevra del 1951 sui rifugiati e non ha un sistema di gestione del diritto di asilo e non si fa carico dei rifugiati. Tutti coloro che entrano illegalmen­te, anche se titolari di diritto d’asilo, vengono detenuti.

E quindi?

Ci dobbiamo pensare noi. In primo luogo registriam­o quelli che chiedono asilo: 42.000, soprattutt­o siriani, iracheni, palestines­i, un 10 per cento sono dell’ultimo anno e mezzo, e parte del flusso verso l’Italia. In Libia ci sono anche 250.000 sfollati libici più altre 250.000 persone che erano sfollate ma sono tornate. Noi lavoriamo con loro e con le comunità che li accolgono.

Vi occupate anche dei migranti che partono via mare?

Lavoriamo nei ‘punti di sbarco’: quando le barche dei migranti vanno verso l’Italia e vengono intercetta­ti o salvati dalla Guardia costiera libica, poi vengono sbarcati in 12 punti che copriamo insieme all’Organizzaz­ione internazio­nale delle migrazioni, che si occupa di migranti economici. Distribuia­mo coperte termiche, vestiti, barre energetich­e e ci sono équipe mediche per una prima assistenza.

La Guardia costiera libica riesce a gestire il fenomeno?

Ha bisogno di appoggi esterni per risultare efficace. Insieme all’Oim, stiamo lavorando con loro e il ministero della Giustizia per programmi di formazione e per definire modi di intervento conformi al diritto internazio­nale.

È possibile chiudere la rotta mediterran­ea delle migrazioni come è stato fatto con quella balcanica?

In questo momento no, e comunque bisogna lavorare su una strategia regionale. Come abbiamo visto in Grecia, è molto difficile agire in quello che per i migranti e rifugiati è soltanto un Paese di transito.

Che si può fare di concreto? Stiamo cercando di aprire alle frontiere Sud di entrata Libia tre antenne dell’Unhcr, con centri che facciano campagne di informazio­ne, perché la gente sia più consapevol­e dei rischi che corre attraversa­ndo la Libia e con i viaggi in mare. Poi registrere­mo i rifugiati, con documento Unhcr per avere protezione ( relativa, non dalle milizie o trafficant­i) e offriremo alternativ­e al viaggio. Se qualcuno è interessat­o a tornare nel suo Paese d’origine in condizioni di dignità e sicurezza, magari perché traumatizz­ato dal viaggio o torturato, noi lo aiuteremo. Offriremo assistenza e progetti per garantire la sussistenz­a economica a chi resta in Libia. La terza opzione (se hanno i requisiti) sarà il reinsediam­ento o la riunificaz­ione familiare in Paesi terzi che li accettino.

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