Il Fatto Quotidiano

I bus e la metro, le mangiatoie dei soliti politici

L’ACRONIMO IN CITTÀ “Arrivi Tardi A Casa” Il grosso delle uscite: mutui e dipendenti, molti dei quali politici o sindacalis­ti (ma paga solo la cubista di Alemanno)

- » ANDREA MANAGÒ

Da quasi 110 anni Atac, oltre a trasportar­e romani e turisti, attira le loro ire. Un vecchio adagio popolare stravolge l’acronimo in “arrivi tardi a casa”, alle risate provvede naturalmen­te una battuta di Carlo Verdone che lo trasforma in “Associazio­ne Teologica Amici Cristo”. La realtà dei fatti racconta di una municipali­zzata del trasporto ( il Campidogli­o è azionista al 100%) da anni in sofferenza, tra un debito di 1,3 miliardi, un modello aziendale elefantiac­o (quasi 12 mila dipendenti) e un servizio non all’altezza di una capitale europea.

Fondata nel 1909 come Azienda Tramviaria Municipale su iniziativa di uno dei sindaci più illuminati della Capitale, Ernesto Nathan, l’azienda assume il suo nome attuale nel 1944. Gli anziani ricordano una rete efficiente di tram, 140 chilometri prima delle Olimpiadi del 1960 (oggi appena 31), mentre i giovani sono cresciuti sotto le pensiline gialle in attesa di bus spesso in ritardo.

DOPO TANGENTOPO­LI, ch e vede Atac al centro di una presunta mazzetta da 32 miliardi di lire assieme all’Atm di Milano, la società è in ginocchio: il debito sfiora gli 800 miliardi di lire. La prima giunta di centrosini­stra di Francesco Rutelli, sotto la regia accorta di Walter Tocci, chiama alla giuda dell’azienda Cesare Vaciago dalle Ferrovie, che vara un piano lacrime e sangue: 5 mila esuberi nel 1994 sfruttando le norme sui prepension­amenti e aumento del costo del bi- glietto. Il piano sembra funzionare. Nel 2000 poi arriva lo spacchetta­mento dell’azienda: nascono Trambus che si occupa del servizio di superficie e Met.Ro. delle linee metropolit­ane, allora solo due. La prospettiv­a è quella di mantenere Atac pubblica a gestire la pianificaz­ione dei servizi per poi mettere a bando le corse, ma l’applicazio­ne pratica diventa ben presto viatico per la triplicazi­one di Cda e dirigenti. Nel 2000, complice il Giubileo, c’è il primo affidament­o ad un privato con le linee periferich­e che passano a Tevere Tpl (oggi Roma Tpl): l’esperiment­o però non regala buoni frutti visto che la società è costanteme­nte in perdita e in ritardo sui pagamenti.

DIECI ANNI più tardi, a gennaio 2010, col centrodest­ra di Gianni Alemanno in Campidogli­o si torna indietro: Atac ingloba nuovamente le due società con annessi debiti. Ma invece di snellire la fusione partorisce un’azienda con lo stesso numero di dipendenti e una proliferaz­ione di dirigenti che, venendo da tre società diverse, mantengono qualifiche e compensi analoghi. Non solo: per complicare le cose la pianificaz­ione degli itinerari e la stesura dei nuovi progetti passa a Roma Servizi per la Mobilità.

Fin qui le storture del modello aziendale, con la governance non va affatto meglio. Solo nei cinque anni di Alemanno cambiano altrettant­i amministra­tori delegati, a dimostrazi­one della difficoltà di gestire una società tanto grande e male organizzat­a. Tra loro spiccano figure trasversal­i come Massimo Tabacchier­a, erede di una storica ditta produttric­e di edicole, la Siderlamin­a, che passa con disinvoltu­ra dalla guida dell’Ama (la partecipat­a dei rifiuti) con Walter Veltroni a quella di A- tac con Gianni Alemanno. Percorso simile a quello di Gioacchino Gabbuti, che guida l’azienda dal 2005 al 2009 col centrosini­stra, salvo poi andare alla controllat­a Atac Patrimonio col centrodest­ra.

Il manager è stato rinviato a giudizio a dicembre scorso con l’accusa di essersi appropriat­o, assieme ad altri due dirigenti, di un milione di euro tramite contratti di consulenza fasulli in favore di una società a loro riconducib­ile. Nel frattempo i tre ex depositi che la divisione Patrimonio deve alienare per fare cassa (possono diventare appartamen­ti, uffici, servizi o centralità commercial­i) giacciono nell’incuria.

NEGLI ANNI di Alemanno in Campidogli­o, Atac fa rima con P ar en to po li : ad aprile scorso sono partite le prime lettere di licenziame­nto, una trentina, per i dipendenti assunti in modo “illecito”. Un mese prima la Procura di Roma ha condannato quattro manager, tra cui l’ex ad Adalberto Bertucci, per assunzioni compiute “per mere logiche clientelar­i e in violazione di legge, senza alcuna valutazion­e dei requisiti minimi profession­ali”. Solo nel 2009 alla casella nuove assunzioni l’or ga nigramma aziendale segna 845 persone. Tra loro spiccano una cubista divenuta un’amministra­tiva (poi licenziata), parenti di sindacalis­ti e di esponenti politici. Nutrito anche il manipolo di consiglier­i ed ex passati nelle fila aziendali: tra loro i dem Daniele Ozzimo e Massimilia­no Valeriani,

L’ultimo bilancio aziendale, al 31 dicembre 2015, parla di un valore della produzione da 1 miliardo l’anno, di cui circa 530 milioni servono per le buste paga. Un’azienda, insomma, che spende più per gli stipendi che per il servizio erogato.

Meno trasporto

Nel 1960 la città aveva 140 km di rete tramviaria, oggi ne ha soltanto 31 km

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LaPresse Ex sindaciWal­ter Veltroni e Gianni Alemanno

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