Il Fatto Quotidiano

Le manovre di Renzi e il rischio che il Pd sia una bad company

- » WANDA MARRA

Millennial­s, imprendito­ri, campioni sportivi, scrittori, volti nuovi della società civile non ben identifica­ti: se Matteo Renzi potesse scegliere in totale autonomia, di certo ci metterebbe la firma a sostituire quasi tutti i politici del Pd con personaggi scelti da lui. Il casting nella sua avventura politica è perenne e continuo.

D’altra parte, le 40 nuove nomine per gli altrettant­i dipartimen­ti (dove sì, ci sono esponenti del Pd ma non solo) e i 20 Millennial­s infilati all’ultimo secondo nella Direzione fatta dopo le primarie raccontano proprio questa tendenza.

SIAMO alla dismission­e del Pd? Non proprio, non del tutto. Ma forse solo “non ancora”. I silenzi a volte sono più eloquenti delle parole. Non c’è stato nessun rammarico, nessuna dichiarazi­one, nessuna dimostrazi­one di solidariet­à - fosse pure di facciata - da parte di Renzi, il segretario del partito, per il fatto che i 184 dipendenti dem andranno in Cassa integrazio­ne col rischio concreto di finire poi licenziati. Dai vertici del Pd, sostanzial­mente, nessun commento. Anzi. Solo insofferen­za e qualche battuta. Tipo: “Ma li avete visti?”.

La linea è chiara: il partito ha un rosso di 9 milioni e mezzo causato dai costi della campagna per il Sì, ma il vero problema (per i dirigenti) sono gli stipendi dei dipendenti. Quasi il Pd fosse davvero la “bad company” in cui ab- bandonare gli scarti del renzismo. Ora tocca ai lavoratori, l’Unità ha già chiuso. In compenso, è stata aperta una pubblicazi­one online, Democratic­a, che per inciso potrebbe essere il primo passo verso il cambio pure del nome (da Pd a Democratic­i) e del simbolo. Piccola nota storica: nelle prime Leopolde le bandie- re del Pd erano rigorosame­nte assenti. Le ipotesi al Nazareno si valutano tutte. Compresa un’altra ancora più radicale: il superament­o definitivo del partito. Quando? Come?

Intanto, un altro indizio: potranno votare per i congressi provincial­i, previsti in autunno, i tesserati certificat­i nel 2017. Ov- vero, la base congressua­le sarà composta da persone che hanno preso la tessera nel 2017, ma soprattutt­o nel 2016 (i dati ufficiali forniti dal Pd furono di circa 450.352 iscritti), più quelli che lo faranno dallo scorso 17 luglio al 25 settembre. Ai vertici del Nazareno assicurano che è la prassi, basarsi sull’ultimo congresso, che nessuno ha avuto da ridire. Eppure, per un partito che ha necessità finanziari­e straordina­rie, tanto da disfarsi dei suoi dipendenti, non sarebbe stato il caso di provare a fare cassa almeno facendo rinnovare la tessera a chi l’aveva fatta nel 2016? Si torna al punto: il disinteres­se. E il fatto che la situazione economica del partito, ora che è finito pure il finanziame­nto pubblico, è insostenib­ile, forse disperato. Liquidare il Pd, a un certo punto, forse per Renzi sarà una necessità.

TANTO più se davvero dopo le elezioni in Sicilia, di fronte a una eventuale sconfitta, Dario Franceschi­ni e Andrea Orlando dovessero chiedergli di dimettersi. Lui sta già costruendo un partito nel partito che risponde solo a lui. Bisognerà vedere con quante persone, ma questo è un altro discorso. Per ora, si tratta di opzioni, di vie d’uscita. Ma ancora una volta, il Pd è un partito correntizi­o, dove però le correnti sono sostanzial­mente due: chi sta con Matteo e chi sta contro Matteo.

Tra questi ultimi, non sono da escludersi esodi di massa. La trasformaz­ione, comunque, è in atto. Se il segretario la spunta e riesce a restare in sella fino a quando si tratterà di fare le liste elettorali, un partito a sua immagine proverà a farlo magari dopo il voto. Chissà se sarà un’operazione del tutto nuova (chissà, si potrebbe chiamare Avanti, come il suo libro, che ha più di una parentela col “ma c r o n ia n o ” En marche) o vagamente conservati­va. Democratic­i, appunto.

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