BETTIZA, L’UOMO CHE CI SPIEGÒ L’URSS
Enzo Bettiza aveva appena compiuto novant’anni, il 7 giugno. Ha vissuto tante vite, e molte le ha raccontate. La più intensa, quella del profugo dalmata, che raccontò in alcuni splendidi libri, negli ultimi vent’anni. Quando sbarcò in Italia, nel 1945, l’inizio fu duro assai: “I comunisti di Tito avevano spogliato la mia famiglia di tutto. Finimmo in un campo profughi pugliese, retto dagli inglesi con inutile crudeltà. Uomini e donne vennero separati”. Per campare, ricorse a mille espedienti: venditore di libri a rate, giocatore di poker, persino contrabbandiere. Eppure, a vent’anni divenne comunista (per poco): “Forse perché mi affascinava il male. O per generosa follìa...”. Con altrettanta passione, si tramutò in acerrimo nemico del comunismo. Diceva che una voce ha bisogno di chi le risponda, col comunismo c’era solo una voce.
Ci fu il periodo Accademia di Belle Arti, a Roma. Pittore, perché no? Posava la giunonica Gina Lollobrigida, tutti gli studenti ne erano cotti. Enzo era un bel ragazzo, aveva successo con le donne.
Con la politica, invece, il discorso fu più tempestoso. Dal Pci traghettò al Pli, il partito liberale. Negli anni Ottanta s’invaghì del progetto “l i b- l ab ”, che connetteva la cultura liberale a quella laburista. Gli piaceva “la mobilità mentale” di Bettino Craxi. Si ricono- sceva nel suo liberalsocialismo. Poi fu sedotto da Umberto Bossi, al quale diede credito ideologico: Bettiza vedeva nella Lega una sorta di “sostanza asburgica”. Ammise di averla votata nel 2010.
È STATO UN GRANDE giornalista, ancor più grande come scrittore. All’amico Predrag Matvejevic, autore del famoso Breviario del Mediterraneo, confessò di sentisi “uno scrittore dalmata di lingua italiana”. Aveva diciott’anni quando dovette imbarcarsi “su un peschereccio pugliese di fortuna, pericolosamente sovraccaricato di ebrei ungheresi, slovacchi, polacchi, romeni, fuggiti dall’Est”, come raccontò nell’ultima pagina del libro dall’esplicito amaro titolo Esilio (Mondadori, 1996). Alle spalle, come in un sogno, sfumava la meravigliosa costa su cui si era spalmata la civiltà che sapeva di Venezia, di commercianti, di pirati, di avventurieri, di imperatori romani, di bizantini, di navigatori illirici. Scriverà dolorosamente: “Vengo da un mondo che non c’è più, con la parola ho difeso la mia identità”. Era nato ricco, a Spalato, famiglia del patriziato mercantile ed imprenditoriale, padre italiano e madre montenegrina della vicina isola di Brazza. Il cementificio Gilardi&Bettiza era la più importante industria della Dalmazia. Gli piaceva, da giovanotto, passeggiare sul lungomare costruito dal podestà italiano Antonio Bajamonti nella seconda metà dell’Ottocento. C’erano tre caffé (“viennesi”). Il primo era frequentato dai serbi, il secondo dai croati, il terzo dagli italiani: “Tra le due anime, l’italiana e la slava, non c’era scissione”, spiegò a Pietro Veronese. Il bilinguismo era naturale, “come se parlassimo una sola lingua in cui il senso d’ogni parola poteva dividersi per due suoni diversi”. Poliglotta, di modi raffinati e di sconfinata passione per le letture e le discussioni, Bettiza approdò ad Epoca, allora un settimanale di grandi mezzi e altrettanta diffusione. Giulio De Benedetti, autoritario direttore della Stampa, lo assunse nel 1957 e lo spedì in quell’Est che ad Enzo gli ribolliva. Fu il primo corrispondente occidentale da Mosca a scrivere che i russi e i cinesi erano venuti ai ferri corti - non solo ideologici. E che il dissidio avrebbe minato il blocco comunista, cosicché l’America avrebbe alla fine vinto la Guerra Fredda. Eppure, De Benedetti lo tormentava, inviandogli telegrammi crudeli: “Lei non solo non sa scrivere, non sa neppure telefonare”. “La prossima volta, mandi il pezzo per posta”... Bettiza disse basta nel 1964. Ma per dirlo, dovette aspettare nell’anticamera del direttore sino alle quattro di notte.
PASSÒ AL Corriere della Sera. Consolidò la sua fama con prestigiose interviste: a Tito, che l’aveva cacciato.. A Ceausescu. A Krusciov. Allo Scià di Persia. Ma andò in rotta di collisione con Piero Ottone e con Giulia Maria Crespi, l’editrice. Non gradì la svolta a sinistra. Lasciò via Solferino con Indro Montanelli che lo volle al suo fianco, condirettore del Giornale: “Indro disprezzava la borghesia che difendeva, ammirava i comunisti che attaccava. Era convinto che la rivolta di Budapest si dovesse a operai che volevano il vero socialismo, mentre fu una rivolta nazionalista e antisovietica”. Lo ribadì nel saggio 1956. Con Montanelli litiga a causa di Craxi. Torna da editorialista alla Stampa. Nel frattempo è stato senatore liberale ( 1976- 1979), eurodeputato (1979-1984), per approdare coi socialisti. Dirige il Resto del Carlino. Sposa la giornalista Laura Laurenzi, hanno due figli. Nel fluviale romanzo Il libro perdutola memoria agita i fantasmi della sua giovinezza. Nell’ultima intervista gli chiedono: come si muore? “Con il rimorso di esistere”.