Ornella vomita sul pareo e resto in slip per il paese
Uno degli errori più comuni delle donne italiane che si cimentano con il castigliano è dire: “Soy embarazada”, che non significa: “Cielo, che imbarazzo!”, ma essere incinta, un tipico esempio linguistico di falso amico. L’origine della parola imbarazzo infatti è spagnola, nell’idioma iberico cinquecentesco l’embarazo era “un ingombro materiale”, cioè avevi qualcosa in esubero, di troppo, un sovrappiù di cui doversi giustificare o vergognare. A me capita ed è capitato l’opposto, considero l’imbarazzo in termini di privazione, mi sento inadeguato perché non ho abbastanza. E molto spesso lo collego all’estate, che in fondo, è il periodo in cui si ha meno lavoro da fare, si hanno meno vestiti addosso.
Parla proprio di vestiti la prima delle storie che sto per raccontare.
Capitolo 1: La gonna e il Lungomare
Colonna sonora: I Can See Clearly Now di Jimmy Cliff
Reggio Calabria alla fine degli anni ’90. Io sono reduce da nove mesi di Erasmus in Germania, dove non ho dato neppure un esame e invece ho frequentato una comune di fricchettoni che non si rendono conto di essere in ritardo (nell’ideologia e nel dress code) di un ventennio. Il problema è che non me ne rendo conto neanch’io.
Per cui mi sento particolarmente figo a creare un po’ di scalpore in una cittadina di provincia. E mi presento a una cena con tre ex compagni di scuola in gonna. Si tratta di un pareo, a esser precisi, dal quale spuntano i miei polpacci secchi e pelosi e delle infradito di pelle comprate in Marocco.
Li vedo, Marco, Ornella e Stefania guardarmi con quella tipica espressione di chi sta pensando: “Come cazzo si è conciato?”.
È la conferma totale del successo, per essere diversi bisogna apparire diversi, non omologati. Andiamo a cena in una bettolaccia, Ornella beve più del dovuto o forse è semplicemente quella che regge meno quel vino rosso ghiacciato di discutibile qualità. Così paghiamo il conto e decidiamo di andare a prendere un po’ d’aria in via Marina. Il lungomare è il luogo di ritrovo di tutta la città. Da- vanti alla gelateria “Da Cesare” centinaia di persone pascolano in cerca di fresco, riconoscimento, amicizia, divertimento, sesso. La strada non è pedonale e le automobili si incolonnano in una fila quasi immobile.
“Va meglio?”, chiedo a Ornella, che si è accasciata su un marciapiede nella parte alta della via Marina, mentre Marco e Stefania si cimentano nell’utopica ricerca di un parcheggio.
Lei annuisce con gli occhi chiusi, poi si aggrappa al mio avambraccio conficcandomi le unghie nella carne. Dal movimento a scatto del collo intuisco ciò che sta per succedere, la faccio alzare e provo a creare un po’ di spazio intorno a noi. La citazione cinematografica di una scena de L’esorcista non riscontra l’approvazione del pubblico sta intorno a noi. L’unica via di fuga possibile mi sembra attraversare la strada, fendere il traffico e rifugiarci verso il mare.
Un, due, tre, su, di corsa. Ornella continua a vomitare fra le automobili. E durante un conato più pirotecnico, non le basta la mia mano che le sorregge la fronte, decide che ha bisogno di altri supporti. Per cui mi strattona il pareo che sinuoso vola sull’asfalto contaminato dai suoi schizzi. Neanche le mie infradito ne escono indenni. All’epoca non avevo esaurito la scorta di slip bianchi, che mia nonna mi aveva lasciato in eredità dopo aver chiuso il suo antiquato negozio di biancheria intima.
Ancora mi chiedo cosa abbiamo pensato gli automobilisti, nel luogo più fighetto della città alla fine degli anni ‘90, a vederci attraversare la strada: la vomitatrice e lo smutandato.
Capitolo 2: Lo struggimento e l’albero
Colonna sonora: No thi ng compares 2u di Sinead
O’Connor
Qualche anno prima, inizio anni ’90 e Katia è bellissima. Da mesi ci aspettiamo all’uscita del ginnasio, di solito io aspetto lei, ma non conta. Ci guardiamo negli occhi sciogliendoci. Ogni tanto, quando non ci vede nessuno, ci teniamo per mano. Chissà che succederà con l’estate?
La sorte mi ha sorriso stavolta. I genitori di Katia hanno una casa al mare a Condofuri, sempre provincia di Reggio, lungo la costa jonica. Non è un posto facile da raggiungere in treno, quasi impossibile in motorino, troppo lontano. E poi io non ho il motorino. Ma la mia famiglia ha deciso di prendere in affitto per agosto una casa proprio a Condofuri.
È ancora l’epoca dei gettoni, non esistono cellulari, non esistono mail. Nelle case al mare nessuno ha il telefono fisso. Si tratta soltanto di aspettare e sperare. Aspettare e sognare. Certo, un po’ strano che non abbia mai provato a chiamarmi da una cabina.
Comunque so dove si trova la casa di Katia, perché ci sono stato l’anno prima, da un suo cugino. Finalmente arriva il primo agosto. La famiglia Gallico si muove verso Condofuri, con il suo congenito ritardo. Arriviamo alle due del pomeriggio, e non posso presentarmi da Katia, a casa sua, non so che tipo sia suo padre. Per cui ritengo che la soluzione migliore sia appollaiarmi sul ramo di un fi c o l ì vi c i n o . Le foglie dell’albero mi nascondono, e io sono una versione romantica del barone Cosimo. La mia libertà, il mio amore, mi separano dalla terra.
Aspetto tutto il pomeriggio, ma nessun movimento. Finché qualcuno si affaccia alla veranda, io mi sporgo per riconoscere la mia musa, il ramo cede e io perdo l’equilibrio. Cado a terra sbucciandomi le ginocchia, poi fuggo via.
La sera incontro Katia al bar del paese abbarbicata a Ciccio. La mia casta, illibata, pudica Katia si dimostra molto focosa con il suo nuovo fidanzato, quello vero. Non so se mi abbia visto nel pomeriggio, se fosse stata lei ad essersi affacciata alla veranda.
Ciccio e Katia si sono sposati, stanno ancora insieme. Auguri, ragazzi.
Capitolo 3
Per fortuna ho finito le battute, potevo continuare a lungo, troppo a lungo. Forse hanno ragione gli spagnoli: l’imbarazzo ingombra…
Per amore di Katia Mi appollaio su un fico. Aspetto ore, qualcuno si affaccia, il ramo cede Cado, mi sbuccio le ginocchia, poi fuggo via. Lei aveva pure un altro