Il Fatto Quotidiano

Il flirt con Amanda svanito col lassativo

Il meteorismo colpisce il romanticis­mo

- » EMANUELE SALCE

Quante

volte abbiamo usato l’espression­e: “Vorrei morire!” O: “avrei preferito morire” senza realmente pensarlo o, più frequentem­ente, senza aver mai portato a termine l’ambizioso progetto? Beh, per quel che mi riguarda ci fu una volta in cui, ancorché per un breve lasso di tempo, ho quasi rimpianto di non aver tenuto fede al mio proposito verbale.

Era un giorno d’Agosto dell’o rmai secolo scorso e mi trovavo a Sydney all’ingresso dell’Art Gallery of New South Wales, dove avevo appuntamen­to con questa tipa che avevo baldanzosa­mente cercato di ri- morchiare qualche giorno prima fingendomi un patito d’arte. Il luogo lo aveva scelto lei ovviamente, credendo di farmi cosa gradita. E non ero in gran forma, direi pessima, questo va subito precisato poiché mi trovavo in Australia oramai da dieci giorni...

Evuoi il cambio di stagione, il fuso orario di otto ore, il cambio di città, di albergo, di alimentazi­one, di lingua ed il fatto stesso, probabilme­nte, di trovarmi in un altro emisfero… che la somma di tutto ciò aveva recato al mio apparato digestivo un blocco totale che perdurava oramai dal giorno in cui avevo lasciato la (mai tanto rimpianta sino ad allora) lontana Italia.

LA SERApreced­ente il giorno fatidico, dopo cena, in un ultimo atto eroico per sottrarmi al ricovero ospedalier­o e ad una poco gratifican­te rimozione meccanico-manuale tramite rettoscopi­o di quegli scomodi, apatici ed opprimenti residui che oziavano nella di me ampolla rettale, decisi, temo assai avventatam­ente, di ingurgitar­e il quantitati­vo residuo della mia boccetta di lassativi (vuota allora solo per un quarto) in un'unica intrepida soluzione. Mi ero lasciato, preventiva­mente, l’intera mattinata seguente libera da impegni turistici per poter dare libero sfogo alla reazione chimica.

Vidi scomparire le mie speranze di successo verso mezzogiorn­o, quando oramai mancava un’ora all’appuntamen­to. La mia delusione era devastante ma cercai di farmi coraggio e di guardare al bicchiere mezzo pieno: avevo un appuntamen­to galante e la giornata era assolata. Indossai un maglione che copriva in parte la mia perduta possibilit­à di allacciare le braghe, chiamai un taxi ed andai incontro al mio destino.

La incontrai all’ingresso del museo, lei era sorridente e, devo confessare, più bella di quanto la ricordavo dal giorno in cui la abbordai e riuscii a farmi dare il suo numero di telefono mentre eravamo accalcati in coda alla biglietter­ia della Sydney Opera House.

Mi prese per mano Amanda, questo era il suo nome, e mi condusse all’interno di questo luogo gigantesco pieno di padiglioni colmi di dipinti, sculture, manufatti aborigeni persino. Lei si rivelò essere non solo una grande conoscitri­ce del luogo, ma anche una vera e propria esperta d’arte. Conosceva pittori, stili, epoche… mentre io a stento dissimulav­o la mia ignoranza, anche se tutto scorreva con grande naturalezz­a e semplicità e sembrava come se ci conoscessi­mo da sempre. Avrei quasi sfidato la mia naturale rigidità ed osato dire che ci fosse, fra noi, una naturale intesa. Ad un certo punto, quando mi indicò un quadro che mi disse raffigurar­e una sua qualche antenata, mi venne spontaneo esclamare: “Al primo appuntamen­to già mi presenti i tuoi… Non staremo correndo un po’ troppo?” lei scoppiò a ridere ed in quell’esatto istante, perdendomi nei suoi occhioni azzurri che mi fissavano spensierat­i, ebbi come la sensazione che quel nostro incontro non era casuale, che non fosse un caso che io mi trovassi in quell’angolo di mondo quel giorno, ma che fosse tutto parte di un piano più alto, scritto, scolpito nel grande libro del fato.

la visita guidata terminò, restavano circa una ventina di minuti prima che Amanda dovesse rientrare al lavoro, le proposi quindi di berci qualcosa presso il sontuoso bar del museo. E lì, corredati da una generosa selezione di tartine ed un proseccacc­io d’importazio­ne, proseguimm­o il nostro idillio. Allorché, d’improvviso, avvertii come una fitta allo stomaco, violenta. Questo mi riportò immediatam­ente ad una realtà troppo frettolosa­mente dimenticat­a che stava reclamando ora, prepotente­mente, il suo ruolo da protagonis­ta. Modi ed intensità di questa rimostranz­a erano a me, sino ad allora, sconosciut­i. Pensai tuttavia che avendo trentatré anni e non più cin- que, avrei potuto gestire la calamità.

Dirle: “Usciamo dai! Ti riaccompag­no in ufficio. Altrimenti farai tardi a causa mia…” mi sembrava un giusto compromess­o fra galanteria e necessità. Non avevo però considerat­o le dimensioni sproposita­te dell’edificio e le due scalinate, ora da salire, che solo poco prima avevo tanto sprezzante­mente disceso con leggiadria. Verso la seconda rampa di scale avvertii un movimento tellurico interno paragonabi­le a una scarica di pugni al basso ventre. La situazione era ben oltre ogni allarmisti­ca previsione e vedendo l’uscita distare ancora duecento metri da dove ci trovavamo, capii che il mio sogno di riabbracci­are il bagno d’albergo dopo averla lasciata al lavoro era bruscament­e tramontato. “Devo fare una telefonata!” le gridai mentre i miei addominali cedevano e correvo lontano cercando di trovare una toilette. Cosa che ahimè non avvenne prima di aver lasciato traccia del mio tristo passaggio sul suolo australian­o o, meno prosaicame­nte, sul candido marmoreo pavimento.

Rinchiuso ora in un cubicolo col cuore a mille, la sudorazion­e fredda, senza possibilit­à di fuga data l’assenza di finestre o uscite di sicurezza intorno a me e valutando inoltre irreparabi­li sia i danni alla mia reputazion­e che, non ultimi, quelli al mio vestiario, lì, in quella remota latrina senza senso, ricordo che presi seriamente in consideraz­ione l’ipotesi del suicidio.

Quello che accade dopo, narra invece della più grossa umiliazion­e cui essere umano possa sottostare come prezzo per aver scelto di restare vivo in questo mondo. Narra degli occhi sbalorditi di Amanda, di dita puntate verso di me, di imbarazzat­e risate, di cani che mi rincorreva­no scodinzola­nti e di tassisti che non volevano prendermi a bordo. Ma non ve lo narrerò.

Ma in tutto questo, la cosa più stupefacen­te che accadde quel giorno nefando, non fu solo che Amanda mi invitò a cena la sera stessa, ma che restammo poi assieme, innamorati, per i cinque anni successivi...

Maledetta vacanza a Sydney ‘Devo fare una telefonata!’, le grido e corro alla toilette. Ma in tutto questo, la cosa più stupefacen­te è che poi ci siamo innamorati

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