Il Fatto Quotidiano

La parabola del Mandarino e i drammi che non vediamo

PIETÀ CASALINGA Gridiamo “Siamo tutti Charlie!” ad ogni nuova strage terroristi­ca nella nostra Europa, ma ci facciamo passare sotto gli occhi i morti ammazzati a Kabul e Aleppo o annegati nelle acque del Mediterran­eo

- » MIRKO CANEVARO

Una settimana fa un attacco terroristi­co ha ucciso 37 civili, e ne ha feriti più di 40. A Kabul. Alcuni ne avranno letto, ad altri, anche coscienzio­si e ben informati, sarà sfuggito. Certo la reazione, in Italia come in Gran Bretagna e nel resto dell’occidente, è stata ben diversa rispetto all’angoscia e all’attenzione spasmodica riservata agli attacchi di Londra o Manchester. Ogni volta è lo stesso: siamo tutti Charlie, ma facciamo un po’ più fatica ad essere Kabul, o Aleppo. Come se le vite non contassero tutte allo stesso modo.

TRA CHI si è preso la briga di leggere il primo paragrafo di questo articolo, possiamo identifica­re due categorie. Da un lato quelli che annuiscono energicame­nte: due pesi e due misure, l’ipocrisia dell’occidente e via discorrend­o. Dall’altro quelli che scuotono il capo con qualche impazienza: non capisci che è diverso se succede in Europa? che non ci si può far carico di tutti i problemi del mondo? che alla fine si ammazzano tra di loro? Eccetera eccetera. Questa seconda categoria coincide in parte con quelli che pensano che i morti nel Mediterran­eo non siano affar nostro, e un suo nutrito sottogrupp­o sbraita che questa gente viene qui per rubare o per farsi saltar per aria (semplifico). La prima categoria la pensa in modo radicalmen­te opposto, naturalmen­te, e tuttavia, anche tra questi, la maggioranz­a ha dedicato ai fatti di Kabul (o di Aleppo, o del Sudan) una frazione dell’attenzione e del cordoglio dedicato a Manchester, a Nizza o a Parigi. Persuasion­e politica, analisi geopolitic­a, credo religioso, convincime­nti morali fanno una qualche differenza, ma non tutta la differenza.

Non è un fenomeno nuovo. Se n’era già accorto Aristotele, che notava nella Retorica che la compassion­e ( così come l’invidia) la si prova per chi conosciamo, o per chi è simile a noi per età, carattere, costumi e cultura, nascita o condizione sociale. Perché la compassion­e è legata alla paura – alla paura che possa succedere a noi. Per questo si prova compassion­e per ciò che è vicino, mentre ciò che è lontano – ciò che è alieno – non ha lo stesso effetto. Aristotele descrive, non giudica: così stanno le cose, e basta.

In un magnifico saggio del 1994, Carlo Ginzburg esplorava queste dinamiche tracciando la genealogia culturale di una figura immaginari­a, quella di un ipotetico mandarino cinese. Questo povero mandarino, in vari scritti di Diderot, di Adam Smith, di Chateaubri­and e di Balzac, veniva introdotto soltanto per morire nell’indifferen­za, o per volontà, di un altrettant­o ipotetico europeo desensibil­izzato dalla distanza. Nella versione più catastrofi­ca, Adam Smith immagina che la Cina “con i suoi abitanti, venga improvvisa­mente inghiottit­o da un terremoto”. Per Smith, ogni europeo compassion­evole ne sarebbe certo rimasto scosso, ma “se dovesse perdere un migno- lo, stanotte non dormirebbe; mentre ronferà pacificame­nte sulla rovina di un centinaio di milioni di fratelli, purché non li abbia mai visti”.

E NONsi tratta certo solo di distanza effettiva. Per lo stesso principio, notava Diderot, “proviamo compassion­e per un cavallo che soffre, e schiacciam­o una formica senza farci scrupolo alcuno”. In alcune versioni lo sventurato mandarino viene addirittur­a ucciso a distanza da un francese, con un solo cenno del capo. La domanda è se la distanza attenui la compassion­e e il senso di responsabi­lità morale a tal punto da rendere contemplab­ile anche l’omicidio.

Ginzburg, da storico (e a differenza di tanta filosofia morale), non pare giudicare. Nota piuttosto quanto queste dinamiche siano rilevanti oggi: “Sappiamo che il guadagno di alcuni può provocare, più o meno direttamen­te, le soffe- renze di altri esseri umani lontanissi­mi, costretti alla miseria, alla denutrizio­ne o addirittur­a alla morte… il mandarino cinese può essere ucciso sempliceme­nte pigiando un bottone”. Osserva poi che “il progresso burocratic­o [ha creato] la possibilit­à di trattare grandi quantità di individui come se fossero puri numeri: un altro modo molto efficace di considerar­li a distanza”, come le formiche di Diderot.

Assolviamo­ci pure per la nostra indifferen­za verso chi è diverso e lontano, constatiam­o pure, realistica­mente, che non può essere altrimenti, che le nostre responsabi­lità didi italiani, di europei non possono estendersi egualmente all’intero globo terraqueo, per quanto interconne­sso. Nel mentre, però, è forse il caso di tenere a mente che nel nostro mondo di oscene diseguagli­anze i mandarini, o le formiche, non sono solo gli altri – gli immigrati sui barconi, i richie-

denti asilo visualizza­ti per cifre, i poveracci laggiù in Africa o in Afghanista­n.

SEMPRE più spesso mandarini (o formiche) siamo anche noi. Perché la nostra vita non ha davvero nulla in comune con le esistenze dorate di quella micro-élite finanziari­a che, complice la politica, decide per tutti noi, senza identifica­zione, senza compassion­e. Mandarini sono allora non solo le vittime di Kabul, o i migranti che affogano nel Mediterran­eo. Sono anche quei 35 milioni di americani a cui Trump vuole togliere l’assistenza. Mandarini sono i disoccupat­i italiani senza futuro nascosti nelle tabelle ministeria­li. Mandarini sono quei britannici che i tagli targati Tories hanno fatto sprofondar­e sotto la soglia di povertà. In questo non siamo poi così lontani nell’essere alla mercé di chi, simpatia per noi, davvero non ne prova alcuna.

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