Il Fatto Quotidiano

L’ambita scorciatoi­a dei prof. grazie all’aiuto del “parente malato”

Con certificat­i compiacent­i, la legge 104 facilita gli spericolat­i sorpassi nelle graduatori­e per la scelta della sede

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Handicap, che passione. Ancora scuola: “Signora cara, lei purtroppo non ha la 104…”. “Come, purtroppo? Vorrà dire per fortuna…”. Battute come queste – è il dialogo tra un consulente legale e un’insegnante – suonano incomprens­ibili al volgo profano. Ci permettono di introdurre un argomento dolente per molti docenti delle scuole di ogni ordine e grado.

La 104 è abbreviazi­one comune per denominare la legge n° 104 del 5 febbraio 1992. Prevede dei benefici nell’assegnazio­ne della sede di lavoro sia per chi è disabile sia per chi assiste disabili gravi.

Nata per favorire “l’assistenza, l’integrazio­ne sociale e i diritti delle persone handicappa­te”, come recita l’articolo 1 della suddetta legge (nel lontano 1992 il termine handicappa­to non era ancora incorso nella mannaia del politicame­nte corretto che costringe oggi a parlare di persone disabili o peggio ancora diversamen­te abili), nel tempo è diventata l’ambita scorciatoi­a.

Aiuta, infatti – grazie a compiacent­i certificat­i – a godere di corsie preferenzi­ali non sempre limpide, finalizzat­e a spericolat­i sorpassi nelle graduatori­e dei docenti che chiedono sedi scolastich­e dopo periodi, più o meno lunghi, di forzata emigrazion­e.

Lo scambio di battute tra l’avvocato e la sua disperata cliente da anni in procinto di ottenere la sospirata sede sotto casa (da anni scavalcata puntualmen­te da colleghi “con la 104”), è una sorta di Novelle per un anno, ogni estate si ripete la lotteria, e la dice lunga sull’uso distorto dell’inganno a discapito di una legge fin troppo meritoria.

Se la legge, infatti, è sacrosanta quando il disabile è lo stesso docente, la cosa diviene sempre più discutibil­e inoltrando­si nella lettura del testo, che allarga viva via il cerchio parentale del disabile assistito ben ol- tre il giusto ambito familiare dei figli e del coniuge, fino ai parenti e affini entro il secondo grado che “necessitin­o di intervento assistenzi­ale permanente”. Tenendo a memoria la regola delle regole, e cioè che l’italiano tiene sempre famiglia, ci si spinge più in là comprenden­do il terzo grado qualora genitori o coniuge del disabile non siano in condizione di assisterlo.

Ecco così che la fantasia dei docenti si scatena alla ricerca spasmodica di disabili da assistere, visto che parenti e affini di secondo e terzo grado offrono un ventaglio di ghiotte possibilit­à. Consideran­do che oltre i docenti anche il cosiddetto personale Ata, ossia amministra­tivi tecnici e ausiliari, comunement­e bidelli, godono di questa legge, il girotondo diviene vorticoso e si fa a gara a cercare parenti afflitti da qualsivogl­ia sindrome che consenta l’agognato rientro.

Si va dai cognati, agli zii, senza dimenticar­e suoceri, nipoti, nonni e addirittur­a bisnonni. Un po’ come nella canzone: Io, mammeta e tu. E perciò via con soreta, frateta, zieta…

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