GENOVA G8, CHI HA PAURA DI GABRIELLI?
Anche la più vistosa delle interviste solitamente ha vita breve. Coloro che fanno i giornali sono i primi a saperlo. Ebbene, l’intervista che Francesco Gabrielli, capo della polizia in carica, ha concesso – un tempo si sarebbe detto, ex cathedra - a Carlo Bonini (cfr. La Repubblica, 19.7.2017, pp. 2-3) non dovrà avere quel destino. Perché chi ha dimestichezza con la storia della nostra Repubblica, sa bene che si tratta di una vera e propria svolta, anche se dipende da noi renderla effettivamente tale. La ragione è molto semplice. Si interrompe così una lunga catena di atti omertosi cui ricorrono, di fronte ad una tragedia ad un tempo umana e politica, troppi politici e dirigenti dello Stato, anche a distanza di anni. Vi sono eventi, di cui sono state specificamente protagoniste forze armate italiane, per anni sottratti ad ogni assunzione di responsabilità. Non è stato sufficiente il passaggio dal regime fascista alla Repubblica per aprire gli archivi dei ministeri degli Esteri e della Difesa che nascondevano le efferatezze compiute dai nostri soldati e dalla milizia fascista in Abissinia, dissepolte soltanto grazie a studiosi e giornalisti quali Angelo Del Boca e Gian Paolo Calchi Novati. In tempi assai più recenti – siamo ormai nella c.d. Seconda Repubblica – sono stati documentati, anzi fotografati, atti di tortura compiuti anche da soldati italiani che hanno provocato terremoti politici in Belgio e in Canada, con relative dimissioni del ministro della Difesa, mentre a Roma sono rimasti annegati in una compiacente commissione d’inchiesta, malgrado gli sforzi meritori della sola Tullia Zevi, per affrontare questa nostra piccola Abu Greib. La successiva tragedia di Nassirya, che ha visto il sacrificio di nostri militari , almeno in parte dovuto all’ambiguità di un mandato di peacekeeping che ha circondato la nostra partecipazione ad una guerra incompatibile con l’articolo XI della Costituzione, non ha provocato alcuna assunzione di responsabilità. “Italiani brava gente !”: c’è del vero. Ma quando non lo siamo, il muro omertoso è la regola.
Con questi precedenti (ho citato solo quelli più pertinenti), la denuncia chiara e circostanziata di un capo della polizia della catastrofe rappresentata dalla gestione dell’ordine pubblico al G8 di Genova non può essere ridotto al livello di uno scoop giornalistico, né può essere liquidato, come sembra fare Vittorio Agnoletto, come l’ennesimo ritardo dello Stato. Gabrielli, che soltanto ora, dopo 16 anni, può parlare con il senso di responsabilità verso il presente e il futuro che compete alla sua carica, non sfugge ai dettagli di una gestione di piazza che è costata la vita a Carlo Giuliani (un delitto tuttora impunito), dall’irruzione alla Diaz e alle torture di Bolzaneto. Soprattutto, egli afferma che “se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della polizia.”. In tal modo egli antepone il principio di responsabilità funzionale a quello più diffuso, non soltanto in Italia della solidarietà omertosa tra membri di una stessa classe dirigente. La testimonianza, quella sì tardiva, dell’allora ministro dell’interno, Claudio Scajola, secondo cui De Gennaro gli avrebbe offerto le sue dimissioni che lui avrebbe rifiutato, aggrava le responsabilità sia dell’uno che dell’altro. Ogni servitore dello Stato, se le dimissioni non sono un semplice atto formale, è libero di mantenerle. Soprattutto, non sarebbero state doverose quelle di entrambi, del capo della polizia, ma anche e soprattutto del ministro dell’Interno? Qui emerge la cultura, la mancanza di senso dello Stato, e purtroppo non solo di Scajola (che ha già avuto modo di darne prova in altre occasioni). A quanto afferma oggi, “le dimissioni del capo della polizia sarebbero risultate destabilizzanti” e non un doveroso atto riparatorio. È evidente che l’alternativa è retorica e che la risposta costituisce la ragion d’essere delle dichiarazioni ex post di Gabrielli.
In tal modo Scajola incautamente introduce il tema che, comprensibilmente, il capo della polizia lascia in ombra, nel corso dell’intervista: il contesto e le responsabilità politiche. Sarebbe troppo facile liquidare la questione col passaggio di consegne da Amato a Berlusconi, alla vigilia del G8. Successivamente Gianfranco Fini ha spiegato la sua presenza a Genova come un “atto di solidarietà nei confronti dei carabinieri” (cfr. Polisblog 5.10.2012). Si badi bene, dei carabinieri, che avevano compiti di tutela della sicurezza dei partecipanti al G8; non della polizia, responsabile della piazza con tutto ciò che ne è conseguito. Proprio in quanto vicepresidente del consiglio privo di deleghe e di titolo per la partecipazione alle riunioni del G 8, la presenza fisica di Fini a Genova assunse, invece, un oggettivo significato simbolico. Il governo Berlusconi non era un banale governo di centro-destra come potrebbe esservene in un altro paese occidentale, ma doveva la sua esistenza ad un partito postfascista con una propria concezione dell’ordine pubblico da cui tuttora trae cospicui consensi elettorali. La simmetrica assenza dell’allora capo della polizia, nominato dal precedente governo di centro-sinistra, Gianni De Gennaro, che avrebbe avuto ogni ragione per essere presente a Genova, era surrogata dalla presenza di dirigenti di sua fiducia che, per suo ordine, avevano esautorato la prefettura e la questura locali. Chi abbia una minima conoscenza delle regole gerarchiche interne alla polizia non può pensare che uomini come Arnaldo la Barbera e Vincenzo Canterini agissero se non sulla base di precise istruzioni dall’alto, De Gennaro compreso; che un “accoglienza” agli arrestati, come quella della caserma di Bolzaneto, fosse concepibile senza qualche beneplacito.
La carriera precedente e successiva al G 8 di De Gennaro offre materiale di riflessione sugli intrecci istituzionali che caratterizzano le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Nominato capo della polizia dal governo Amato, dopo il ruolo nella lotta contro la mafia (compresa la gestione del caso Buscetta in collaborazione con l’FBI) – non precisamente titoli di merito per il governo Berlusconi – dopo le vicende del G8 resta capo della polizia fino al luglio del 2007, destra imperante, quando fu di nuovo chiamato al fianco di Amato, ministro dell’Interno, come capo di gabinetto. Successivamente assume la guida del CESIS (il coordinamento dei servizi segreti), sottosegretario con delega ai medesimi servizi nel governo Monti, tuttora presidente di Finmeccanica (ora Leonardo, ove resta al suo posto). Si può quantomeno osservare che il ruolo da lui rivestito all’epoca del G8, comprese le mancate dimissioni, non abbia nuociuto a quella carriera. Del resto, le reazioni dell’opposizione di centro-sinistra ai fatti di Genova, occasione d’oro per mettere alla sbarra il governo appena eletto, sono state relativamente blande (un’inchiesta parlamentare che non ha dato risultati, segnale di un declino del ruolo del parlamento). E Marco Minniti, già allora responsabile delle tematiche di ordine pubblico dei Ds, e che oggi lascia trapelare solidarietà a Gabrielli, dov’era? E cosa faceva?
IL SIGNIFICATOLe parole del capo della Polizia su De Gennaro sono una svolta. Interrompono una catena di atti omertosi cui ricorrono, di fronte a tragedie umane e politiche, troppi dirigenti e uomini dello Stato