Il Fatto Quotidiano

QUEI PM IN GINOCCHIO DA PALERMO A NAPOLI

- » ANTONIO INGROIA

Diceva bene Piercamill­o Davigo qualche giorno fa in un’intervista su questo giornale, la magistratu­ra, tranne poche eccezioni, non sfugge all’omologazio­ne imperante. A 25 anni dal 92 dell’inizio di Mani Pulite e delle stragi di mafia, Davigo vede oggi una magistratu­ra “molto più genuflessa e intimidita” sotto la pressione di una classe politica che ha avuto “l’effetto di spaventare e piegare molti magistrati” creando “un ordine giudiziari­o sempre meno forte, sereno e indipenden­te e sempre più affetto dal carrierism­o e dalla tentazione di cercare santi protettori. Cioè sempre più conformist­a verso chi comanda”.

PAROLE DIROMPENTI che tuttavia hanno avuto l’effetto dell’acqua sul marmo. Qualche reazione di maniera ed avanti come prima, come se niente fosse. Sminuendo la portata della denuncia di un protagonis­ta di una stagione giudiziari­a in cui la magistratu­ra ha espresso, a Milano come a Palermo, il massimo dell’autonomia e indipenden­za applicate alle indagini, che per la prima volta osarono colpire gli “intoccabil­i”.

Da allora ad oggi un assedio continuo al principio della separazion­e dei poteri, per ricondurre la magistratu­ra entro gli argini, asservita o quanto meno addomestic­ata. Anni di lunga resistenza, ma alla fine l’assedio ha fatto breccia e si è entrati nella cittadella giudiziari­a, seppur in modo meno eclatante di come avrebbero voluto i pasdaran dell’impunità, Berlusconi in testa. Senza razzie e saccheggi, ma ottenendo una diffusa omologazio­ne, specie nei capi degli uffici giudiziari, verso il modello di magistrato preferito dalla politica. Ed è perciò prevalso un inquietant­e conformism­o giudiziari­o, ossequioso nei confronti del potere, e caratteriz­zato dal doppiopesi­smo valutativo, forte coi deboli ed indulgente coi potenti.

Il modello vincente, che ottiene facilmente titoli di prima pagina e consensi istituzion­ali che svolgono tappeti rossi in favore di luminose carriere, usa la mano pesante con l’imputato corrispond­ente al clichédel colpevole, da Riina a Carminati, ed invece la prudente ma- no di velluto quando si toccano i “potenti dell’impunità”, vale a dire politici e colletti bianchi esponenti di quella classe dirigente criminale che tiene in pugno da decenni la cosa pubblica nel nostro Paese. Una classe dirigente che non si è fatta scrupolo di ricorrere a omicidi, depistaggi e stragi per mantenere lostatus quo, servendosi all’occorrenza di mafia e di apparati istituzion­ali deviati per attuare svariate forme di neutralizz­azione dei “disobbedie­nti”.

Chi non si piega e non si allinea, una volta eliminato fisicament­e, oggi viene isolato e denigrato. È successo in passato a Palermo ai magistrati che non si allinearon­o ed osarono processare e far dichiarare colpevoli personaggi del calibro di Dell’Utri, Andreotti e Contrada, e poi ad avviare indagini sui “Sistemi Criminali” e sulla trattativa Stato-mafia. Succede oggi a Nino Di Matteo, finalmente nominato alla DNA ove si spera gli venga consentito di occuparsi delle vicende che il partito dell’impunità non vorrebbe si occupasse. Ed è successo a Federico Cafiero de Raho, cui il Csm ha negato la guida della procura di Napoli, nonostante i titoli e la maggiore esperienza sul campo rispetto al suo concorrent­e, Giovanni Melillo, evidenteme­nte considerat­o più affidabile dal mondo poli- tico, avendo per anni prestato i suoi servigi prima presso gli uffici del Quirinale e poi presso il Gabinetto del ministro della Giustizia. Non è un caso che tutti i membri del Csm di nomina politica, fatta eccezione per quello scelto dal M5S, hanno votato contro Cafiero de Raho, ovviamente considerat­o magistrato non in linea con il “nuovo corso”, dal momento che è lo stesso capufficio che a Reggio Calabria ha consentito indagini come quella sulla ’ndrangheta stragista e sul sistema criminale integrato di mafie, servizi deviati, massoneria e destra eversiva che nei primi anni 90 provò ad organizzar­e un golpe salvo poi accordarsi con Berlusconi, futuro padre della Patria nel governo Renzusconi.

FIGURIAMOC­I cosa un Procurator­e Capo come lui potrebbe consentire a Woodcock nell’in da gi ne Consip, avranno pensato al Csm. Ed alla procura di Roma intanto, da una parte, si indaga con infaticabi­le solerzia lo stesso Woodcock per una presunta fuga di notizie in danno dell’ex premier Renzi, dall’altra ci si duole della timidezza dei giudici romani su Mafia Capitale, ma poi si torna ad essere estremamen­te prudenti quando si tratta di indagare sui misteri della latitanza di Provenzano e i legami con la trattativa Stato-mafia, preferendo archiviare l’omicidio di Attilio Manca col rischio di mettere una pietra tombale su una vicenda che chiede verità e grida giustizia.

Già, sono trascorsi 25 anni da quel 1992. Ma l’oggi della magistratu­ra non è purtroppo all’altezza di quella stagione.

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