Il Fatto Quotidiano

Fognini, incoscient­e scapestrat­o da tutto o niente

- » ANDREA SCANZI

Quando capita di parlare di tennis, e non capita poi spesso, si sente chiedere: “Perché non è più nato un campione dopo Panatta?”. Dopo Adriano Panatta e Corrado Barazzutti, l’Italia non ha più avuto top ten. Mentre il tennis femminile toccava apici imprevedib­ili con Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci, quello maschile non dava granché segno di sé. Dopo Barazzutti, non sono stati molti i tennisti con un livello potenziale da top ten. Forse Paolo Canè, però troppo incostante e capitato in un momento storico dal livello medio elevatissi­mo. Di sicuro Camporese, fortissimo sul veloce nel biennio 1991-92 ma un po’ pigro e ancor più sfortunato. Gaudenzi e Furlan, entrambi top 20, hanno tratto il massimo dalle loro carriere. E così anche Seppi, encomiabil­e mediano della racchetta.

Non ci sono campioni all’orizzonte, solo onesti e volitivi profession­isti. L’unico che, se volesse, potrebbe intrufolar­si tra i top ten è Fabio Fognini. Ci è andato vicino nel 2014, quando era 13 (miglior risultato italiano dai tempi di Barazzutti) ma poi sbagliò tutto nei mesi successivi, nonostante tabelloni non impossibil­i. Forse è stata l’ultima occasione e forse no. Dopo un appannamen­to nel 2015 e inizio 2016, coinciso peraltro con la clamorosa vittoria in doppio (con Bolelli) degli Australian Open, Fognini sta avendo il merito – complice il nuovo allenatore Darvin – di tornare ad alti livelli.

HA TRENT’ANNI, l’età giusta per i tennisti italiani che maturano quasi sempre più tardi degli altri. La paternità sembra avergli dato un barlume di serenità. Domenica ha vinto a Gstadd il suo quinto torneo (tutti sulla terra rossa). Come Barazzutti. All’attivo ha anche otto finali perse. Come Barazzutti. Uomo dalle grandi imprese e dalle rovinose franate. Ciclicamen­te protagonis­ta di sclerate furibonde, è per questo detestato dai feticisti del politicame­nte corretto. Eppure Fognini non ha mai voluto essere un “esempio”: gioca per se stesso, si comporta giustament­e come gli pare e se sbaglia è lui è il primo a pagarne le conseguenz­e. Ieri è risalito alla 25esima posizione. Potrebbe salire ancora. Quest’anno ha dimostrato di essere competitiv­o anche sul veloce (semifinale a Miami). Ha più volte battuto Nadal, che lo soffre oltremodo. Vale anche per Murray, che Fognini ha divelto in Davis (la sua partita perfetta) e che poteva battere tanto alle Olimpiadi quanto allo scorso Wimbledon. Purtroppo gli basta quasi sempre uno scambio “sgradito” per spegnersi. Chi lo conosce sa che, in privato, ha ben poco di maledetto: è solo uno che, quando gioca, concepisce l’agone come un proscenio sublime ma pure uno sfogatoio putribondo. Quattro anni fa, opposto al monocorde iberico Montanes, Fognini si inventò una partita assurda. Roland Garros, ottavi di finale. Quinto set. Sul 6-7 15-30 e servizio, accusò prima un crampo e poi un mezzo stiramento. Continuò. Giocò da fermo o quasi: solo errori e vincenti. Si fece chiamare cinque falli di piede, salvò tre match point, vinse non si sa come 11-9.

Il giorno dopo neanche scese in campo e si ritirò: quella propaggine epica aveva peggiorato l’infortunio. Infatti fu costretto a fermarsi per un mese. Fognini è così: un incoscient­e scapestrat­o da tutto o niente, che prima ami e un attimo dopo detesti. La sua carriera è piena di partite oscene e capolavori veri. C’è chi lo odia: liberi di farlo.

Se però vi capita di vederlo giocare in tivù, fermatevi a guardarlo: di sicuro, nel bene e nel male, non vi annoierete.

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