Il Fatto Quotidiano

“Pronto, Aci? Ho forato” Uno straordina­rio papà

- » FABIO BARTOLOMEI

Non ci siamo mai la me nt at i perché la nostra era una famiglia normale, tendente al povero, come amava precisare mia madre a mezza bocca, e quando capitava un problema o una spesa improvvisa era sempre lui a farsene carico. Cominciava ad alzarsi prestissim­o al mattino e a tornare tardissimo la sera, senza lamentarsi, senza mai trasferirc­i la benché minima preoccupaz­ione. Eppure questa sorta di monolite umano cambiò radicalmen­te. Repentinam­ente. Quasi da un giorno all’altro divenne spiritoso.

Accadde all’alba dei settant’anni, in quelli che furono gli ultimi due mesi della sua vita, quando a causa di un tumore inoperabil­e ormai non ce la faceva nemmeno più a camminare, e per spostarsi usava una sedia a rotelle. Ero poco lucido, dormivo male, avevo crisi di pianto di fronte alle pubblicità dei pannolini per adulti e la sua prima battuta, arrivata a sorpresa durante una delle mie consuete visite serali, mi colse alla sprovvista. Mentre all’ingresso chiedevo notizie a mia madre, sentii la sua voce. “Pronto, Aci? Buonasera, ho bisogno di assistenza perché ho forato”. Andai subito in salotto. “Ho chiamato il carro attrezzi” mi disse lui con la massima serietà, indicando la ruota sgonfia della sua sedia a rotelle.

POI MI RIVOLSE un sorriso ammiccante e allargò le braccia come un comico consumato davanti al suo pubblico, in attesa dell’applauso. Ero troppo frastornat­o per reagire come avrebbe e come avrei voluto. Lo abbracciai, e più tardi con mia madre convenimmo: “Ormai non ci sta più tanto con la testa”.

La sera successiva, a tavola, si esibì di nuovo. Mia madre aveva servito una minestra che mangiammo in silenzio mentre lei come al solito ci guardava a turno, seguendo il tragitto del cucchiaio dal piatto alla bocca. Eravamo noi il suo cibo. Era il nostro appetito a saziarla.

Non aveva avuto le forze per cucinare il secondo e quando ci vide pulire il piatto con il pane se ne pentì. “Posso portarvi altro?” ci chiese. “Il conto, che andiamo di fretta. Gr azie ” rispose all’i stan te mio padre. Che restò serio per qualche secondo prima di regalarci un bel sorriso in attesa di un nostro cenno di approvazio­ne per la battuta. Ridemmo, quella volta. Felici e perplessi, interrogan­doci su quale farmaco potesse essere all’origine di quell’insolita verve.

Ne diceva ogni giorno, a ogni occasione. Non erano mai delle gran battute, ma trattandos­i dell’uomo che per tutta la vita aveva raccontato le barzellett­e partendo dalla fine potevamo considerar­le dei piccoli miracoli di umorismo. Il tempismo poi era sempre perfetto, la recitazion­e perfino spavalda.

La sua salute in quegli ultimi due mesi peggiorò rapidament­e e, anche se si vedeva che gli costava sempre più fatica, non smise di sorprender­ci. Una sera accompagna­i nella sua stanza l’infermiere che da settimane gli faceva visita per adattare il dosaggio dei farmaci ed effettuare un piccolo prelievo di sangue. Appena lo vide mio padre protestò: “Niente prelievo oggi, per il sangue è già passata la dottoressa”. Scambiai un’occhiata con l’infermiere, da giorni la memoria del vecchio faceva brutti scherzi e a volte aveva anche delle brevi allucinazi­oni. “Dottoressa, glielo dica lei” continuò volgendosi verso il comodino e indicando una grossa zanzara appoggiata sul paralume. Ma le battute erano niente, il vero spettacolo erano le sue facce. Impassibil­i per qualche secondo e poi sorridenti come una maschera comica, con lo

sguardo che guizzava da uno spettatore all’altro. A scoppio ritardato cominciamm­o a ridere. Ne fu felice. Profondame­nte soddisfatt­o. Quella sera per la prima volta l’infermiere se ne andò con gli occhi lucidi, senza riuscire a salutarmi.

ARRIVARONO le giornate più dure, mio padre iniziò ad avere problemi di respirazio­ne e anche la cosa più semplice, come rimediare una bombola di ossigeno, si rivelò un incubo fatto di viaggi a vuoto e file esasperant­i. Quando finalmente riuscii a portare la bombola nella sua stanza e a collegarla alla mascherina, mio padre respirò avidamente e provò subito a dire qualcosa, ma era troppo fiacco. Mi fece segno di aspettare. Respirò ancora, s’in testardì e, racimoland­o forze da chissà dove per rendere la voce minuta e squittente, mi disse: “Sicuro che non sia elio?”. Scoppiai a ridere così fragorosam­ente che mia madre si spaventò e arrivò di corsa. Giusto in tempo per godersi il suo primo bis.

La settimana dopo smise di mangiare e nell’assenza di luce dietro le iridi azzurre vi- di che aveva iniziato ad andare altrove.

Una notte, poco prima di mettermi a dormire sul divano, lo fissai a lungo, per la prima volta senza preoccupar­mi di nascondere la mia tristezza. All’improvviso la sua mano cercò la mia. Bofonchiò qualcosa. Lo vidi ragionare, elaborare, poi lo sentii deglutire, e con sforzo sovrumano rantolare: “La sai… quella dell’u omo che chiamava la moglie ‘Tesoro’?”.

Dopo il funerale iniziammo ad aspettare il crollo. Io aspettavo quello di mia madre, lei aspettava il mio. Lo aspettammo per settimane, mesi, anni. Inutilment­e. Avevamo vissuto la storia dell’uomo che era diventato spiritoso in punto di morte e, per quanto potesse apparirci strano o addirittur­a fuori luogo, quando ne sentivamo la mancanza non potevamo fare a meno di sorridere.

Quello aveva fatto mio padre per tutta la vita, quello era il suo talento, fare gli straordina­ri quando la famiglia aveva bisogno di qualcosa. Denaro o allegria che fosse.

Effetto dei farmaci? Ma il vero spettacolo erano le sue facce: “Dottoressa, glielo dica lei” disse volgendosi a una grossa zanzara appoggiata sul paralume

Respirò e, racimoland­o forze per rendere la voce minuta e squittente, mi disse: ‘Sicuro che non sia elio?’

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