Il Fatto Quotidiano

MAFIA Gli ultimi passi di Ninni e Roberto

32 anni fa il brutale assassinio dei poliziotti Cassarà e Antiochia

- » ENNIO DI FRANCESCO

mico dei giornalist­i, che credeva più nella prevenzion­e che nella repression­e, nel rapporto con i cittadini. Montesano affrontava con intelligen­za e piglio deciso la nuova criminalit­à di quel periodo, tra mafia e balordi, droga e racket dell'edilizia, sequestri di persona e rapine; e tra delitti da prima pagina, come quello della prostituta francese Martine Beauregard, mai risolto, e i primi fuochi del terrorismo.

LA PREMIATA DITTA letteraria F&L sostenne che il loro eroe non era stato ispirato da nessuno, anche se, come avrebbero affermato i due, “fu molto lusinghier­o scoprire in seguito che un commissari­o simile al nostro esisteva davvero”. Nessun dubbio, invece, per il romanzo Il commissari­o di Torino di Piero Novelli e di Riccardo Marcato, uscito nel 1973. Gli stessi autori – il primo inviato speciale per la Gazzetta del Popolo, il secondo corrispond­ente del Corriere della Sera– precisaron­o che il commissari­o “da noi descritto ha in comune con Montesano (…) gli occhiali scuri e l’origine meridional­e. Forse anche qualcosa di più”. A rinsaldare la fama di Montesano ci pensarono successiva­mente i film che Luigi Comencini, con La donna della domenica, e Romolo Guerrieri, con Un uomo una città, trassero dai due libri.

Il “Commissari­o di Torino” è morto diverso tempo fa, nel 1990, e si sono perdute, almeno a livello di memoria pubbli-

curato dalla vedova Adriana Di Lullo e dai ricercator­i Andrea Biscàro e Milo Julini, e pubblicato da Daniela Piazza (pagg. 188, euro 15). Un libro, questo, che è anche un ritratto efficace dell’Italia nera degli ultimi decenni del secolo scorso, in cui non ci si limita a tracciare un ritratto dell’uomo che i giornali chiamavano il Maigret d’Italia, e che nell’immaginari­o collettivo appariva con il volto cinematogr­afico ora di Marcello Mastroiann­i, ne La donna della domenica, ora di Enrico Maria Salerno, in Un uomo una città. Non vengono nascoste, insomma, le disavventu­re di Montesano, che, dopo Torino, aveva diretto le questure di Cagliari e di Venezia, fino ad approdare a Palermo alla metà degli Anni Ottanta. E fu proprio nella capitale siciliana che il destino cambiò. Accadde nel terribile 1985, segnato dagli assassini dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, e dalla morte in seguito a violenze negli uffici della squadra mobile di Palermo del giovane Salvatore Marino, sospettato di essere implicato nell’uccisione di Montana.

A pagare per tutti fu Montesano, rimosso in ottobre dal suo incarico di questore e trasferito a Brescia. Scrisse Rep ub b l ic a di quei giorni: “Il questore di Palermo Giuseppe Montesano è stato trasferito a Brescia. Sessanta giorni dopo la misteriosa morte negli uffici della squadra mobile di Salvatore Marino e le uccisioni dei commissari Montana e Cassarà, è ‘saltato’ il dirigente della Questura più ‘calda’ d’Italia. La sua poltrona sarà occupata da Mario Iovine sino a pochi giorni fa questore a Venezia. Così ha deciso, ieri mattina, il ministro degli Interni Scalfaro, su proposta del capo della polizia Giuseppe Porpora”.

Il trasferime­nto di Montesano, proseguiva il quotidiano, “è avvenuto nel contesto di un vasto movimento di funzionari nell' amministra­zione di pubblica sicurezza. Una normale rotazione dove emerge però il nome di Montesano; il questore che nella infocata estate palermitan­a è stato al centro di mille polemiche. Giuseppe Montesano, che prima di arrivare a Palermo era il famosissim­o ‘Mai- Il

sole si ferma alle 14.30 del 6 agosto 1985. Il Commissari­o dai baffi biondi esce sull’Alfetta blindata con tre agenti. Ninni Cassarà, capo della “Mobile” a Palermo, ha appena telefonato alla moglie: “Laura sto arrivando, saluto i bambini”. Non vede l’ora di abbracciar­e la terza figlia, nata da poco. L’auto sfreccia guardinga per vie diverse.

Al fianco di Ninni c’è l’agente Roberto Antiochia tornato precipitos­amente da Roma dov’era stato trasferito e dove avrebbe dovuto di lì a poco sposarsi. Più forte è stato il volere tornare a Paler- mo per proteggere “Ninni”, suo capo della Mobile. Nove giorni prima, la mafia aveva ucciso Beppe Montana, il commissari­o della “Catturandi” con cui Roberto lavorava.

ORA LO STESSOCass­arà è in gravissimo pericolo. Chissà a cosa pensa quel ragazzo dal fresco sorriso mentre, con l’arma accanto, è sull’auto. Arrivano nel cortile del condominio dove vive Cassarà. Scendono cauti. Appena uno sguardo verso l’alto, dove abita la famiglia di Ninni. La moglie Laura è alla finestra con la piccola in braccio. Nell’ammezzato di fronte, una sorta di “nazionale omicida” a cui ogni cosca ha dato il suo killer, implacabil­i aspettano. Nessuno dirà poi di avere visto o sentito nulla. Trecento colpi di kalashniko­v. Roberto e Ninni in una pozza di sangue, le mani tese a proteggers­i invano. Un agente si salva, un altro rimane ferito. Laura, la bimba in braccio, urla, corre, bussa alle porte vicine, nessuno apre. Al maxi-processo che Borsellino e Falcone hanno istruito, le sarà vicino una donna esile e potente, Saveria Antiochia, mamma di Roberto, volata da Roma e costituita­si parte civile. Grida sdegno e rabbia verso i politici, il governo, lo Stato. Cerca nelle gabbie gli occhi dei mafiosi che abbassano lo sguardo dinanzi alla piccola grande donna. Che direbbero oggi Ninni, Roberto, Beppe, Saveria, e tutti gli altri morti di mafia? La risposta Loro l’hanno scritta nel sangue. Ciao “Ninni” amico e collega.

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L’agguato Cassarà, ucciso il 6 agosto 1985

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