L’enigma Pakistan Tra guerre e Jihad il Paese non crolla
TROPPO spargimento di fango, la Partition, profughi, settarismi, armi, tensioni perenni con l'India sulla frontiera del Kashmir. Il Pakistan di 70 anni dopo resta più che mai un luogo di violenza”, ricorda Abenante (Università di Trieste), storico dell’area.
Anche verso le minoranze?
Gli indù sono poche migliaia e si nascondono, ma ci sono anche spaccature nel mondo musulmano. Il Pakistan non ha avuto la stessa classe dirigente dell'India, che dopo l'Indipendenza ha saputo rendere la diversità un fattore di cambiamento.
Perché?
C'è una responsabilità britannica, le province dell'odierno Pakistan erano amministrate in modo molto più autoritario, e questo è continuato.
Con ripercussioni anche economiche.
Sì, è aumentata la forbice con l'India, non ha la stessa capacità di attrarre investimenti, anche per le violenze che lo attraversano. E c'è anche un difetto di volontà. L'esercito rappresenta ancora il primo capitolo di spesa pubblica, e ha una presenza capillare in tutta la società. La permanenza delle tensioni militari è garanzia del suo potere. Nondimeno proliferano movimenti e azioni terroristiche.
Quel “jihadismo” è molto recente, coincide con Al Quaeda. Il problema è che un paese pieno di armi, a partire dalle crisi afghane degli anni 70. Viene da chiedersi perché in tutto questo il Pakistan esista ancora.
È un paradosso, anche a detta degli studiosi. Più volte è stato pronosticato “l’imminente collasso”, che invece non c’è stato. La ragione secondo me è che, bene o male, uno “Stato” c’è, a differenza che altrove. Con una burocrazia capillare, un’assidua “retorica nazionalista” e una parvenza di democrazia. In un contesto difficile come questo uno “Stato” forte è forse l’unico collante.
Speranze dalle nuove generazioni?
Sì, ed è uno sviluppo promettente. Non sono figli delle vecchie lacerazioni e, grazie anche alle nuove tecnologie, “si parlano” di più, anche con gli indiani. E anche di religione.