Tentato stupro alla pelliccia di visone: è la bertuccia ubriaca
Carmine, il papà di Giovanni Colasanti, aveva una catena di sale giochi sparse tra Carrassi, San Pasquale, Torre e a Mare. Niente spaccio di droga. Per far volare gli affari bastava un'elusione fiscale ben organizzata. Dopo che il papà di Vincenzo Cesaro (rappresentante di spumanti) si comprò la villa a San Giorgio, Carmine Colasanti si fece la villa con piscina a duecento metri di distanza. Sei mesi dopo, il papà di Vincenzo cominciò a passare davanti alla villa di Carmine in ciabatte e canottiera, a bordo di una Ferrari Gto. Finì l’estate, e Carmine si comprò una Ferrari Testarossa. Il papà di Vincenzo costruì una terrazza oltre l’ultimo piano della villa. Carmine Colasanti elevò un equivalente inno all’a bu si vismo edilizio traboccante di gerani e piante tropicali.
FU IL PAPÀ di Vincenzo a spostare la competizione sul piano etologico: un giorno scese dalla Ferrari in ciabatte e canottiera. Solo che accanto a lui zampettava adesso un cucciolo di ghepardo. Carmine rispose comprandosi una bertuccia che prese a scorrazzare in una villa piena di pianoforti bianchi e discoboli di gesso. Tra ghepardo e bertuccia in teoria non c’è partita, ma era il papà di Vincenzo a essersi fatto male i conti: il primo divano sventrato certificò l’età in cui i ghepardi pugliesi vengono ri con se gna ti allo Zoo Safari di Fasano.
“Domani mi faccio l’orso bianco!” diceva il papà di Vincenzo. Noi bambini ci sganasciavamo. Lui sghignazzava tenendosi la pancia.
I ricchi da generazioni sono tirchi. Un tempo ammiravo la lunare malinconia di alcuni di loro, l’elegante vocazione al suicidio. Oggi nemmeno quello. Nessuno è generoso come i poveri che hanno fatto i soldi. I calciatori brasiliani che tornano nella favela per Carnevale, spendono centomila dollari in festeggiamenti, e giacché ci sono regalano un pick up al marito della cugina che li sverginò da bambini – a loro va il mio amore. Carmine Colasanti e il papà di Vincenzo Cesaro invitavano ogni sera a cena decine di persone. Erano banchetti infiniti. Ogni tanto in giardino qualcuno sparava i fuochi d’artificio. A casa del papà di Vincenzo c’era il juke box. Ma a casa Colasanti c’era la bertuccia.
Era, questa, una bertuccia molto socievole. Cita. Noi bambini ci divertivamo a vestirla – tutù da ballerina, t-shirt, cuf- fietta gialla. Carmine soprannominò sua cognata allo stesso modo. Così, dopo aver addentato una costoletta di agnello, il padrone di casa gridava: “Cita!”, ottenendo il doppio effetto di esasperare la moglie di suo fratello (“Cretino!”, rispondeva Annamaria tra le risate generali) e richiamare a sé la fedele bertuccia. La scimmia sal- tava sulla tavola, si strappava la cuffietta di dosso e iniziava a ballare e a rovesciare bicchieri. Allora noi bambini salivamo sulla tavola battendo le mani. Non li sentivamo neanche, gli schiaffi che ci scaraventavo al suolo. Stesi sul pavimento, la faccia gonfia, continuavamo a ridere.
Erano ambienti in cui il ses- sismo era ovunque e non esisteva, in cui l’omofobia era feroce e inoffensiva. “Ricchione maledetto, passami il vino!”, urlava Carmine a Gennaro il Ricchione, che gli faceva da ragioniere e stava per comprarsi pure lui la villa al mare. “In culo te la metto la bottiglia”, rispondeva Gennaro come nessun sottoposto avrebbe osato fare altrove. “Prova Genna’, mi sa che gli piace!”, diceva la moglie di Carmine. Carmine si abbassava i pantaloni come per farsi fare una puntura. Tutti morivano dalle risate.
Un pomeriggio d’inverno, mentre era in ufficio, Carmine ricevette una telefonata. Era Nina, la domestica che viveva con loro in villa.
“Nanuccia, non sto capendo niente”. La donna rideva o singhiozzava, era difficile distinguere.
“Va bene, arrivo”, disse Carmine.
Si trattava di Cita. La scimmia stava dando i numeri. Dopo pranzo, aveva ciondolato fino al mobiletto degli alcolici. Aveva osservato rapita il vetro smerigliato. Lo aveva aperto. Poi, aveva cominciato a svitare i tappi delle bottiglie, a bere a garganella sempre più veloce. Whisky, vodka, rum. Imitava ciò che vedeva fare agli ospiti di casa. Adesso era ubriaca fradicia. Correva da un lato all'altro della casa facendo strani versi. Nina disse che faceva impressione.
QUANDO CARMINE arrivò, trovò Cita sulla sommità delle scale che portavano alla zona notte. La scimmia aveva tra le gambe la pelliccia della signora Colasanti. Tentava di stuprarla. “Cita!” urlò Carmine. La scimmia lasciò perdere il visone e lo guardò. Aveva gli occhi stravolti, la bocca oscenamente aperta, le zanne lunghe e gialle. Non era la Cita di sempre. Si lanciò dalle scale, piombò addosso all’uomo. Il primo fiotto di sangue innaffiò la parete. Nina iniziò a urlare. I vicini accorsero. Se Carmine non avesse indossato il montone, la scimmia sarebbe arrivata alla giugulare. I due rotolarono selvaggiamente fino all’ingresso. Pur amandosi, lottavano in modo disperato. Quando Carmine sentì il proprio stesso petto lacerarsi, diede il calcio decisivo e si staccò dalla scimmia.
I vicini urlarono. Cita corse in giardino.
Noi bambini vedemmo la nostra amata bertuccia da lonta- no. Cita si aggirava confusa tra altalene e fiori. Poi la scimmia saltò all’indietro, mentre una parte della sua testa schizzava dalla parte opposta. Un pezzo di materia cerebrale inzaccherò scaletta della piscina.
Dall’altra parte del giardino, Carmine Colasanti lasciò cadere il fucile. Crollò a terra pure lui. Noi bambini scoppiammo a piangere. La gente, tutto intorno, non tratteneva le risate. Carmine, zuppo di sangue, rideva e tossiva. I portantini dell'ambulanza lo portarono via ridacchiando. Risero perfino i carabinieri, attirati dal colpo di fucile. Allora noi bambini prendemmo a ridere come matti. Un riso profondo, antico. La stessa reazione che, se fosse esistito, avrebbe avuto Dio davanti all’incommensurabile stupidità delle sue creature. Creature fragili, insensate, comicamente in transito sul palcoscenico del mondo, prima di ripiombare nel buio più assoluto.