UNIVERSITÀ, I CONCORSI SONO UN’ILLUSIONE
Un recente studio de ll ’ Ufficio Valutazione Impatto del Senato ha denunciato la scarsa efficacia della riforma del reclutamento universitario nel contrastare il “localismo” dei concorsi, ovvero la tendenza delle università ad assumere come professori dei ricercatori già in servizio presso il medesimo Ateneo: ne ha parlato sul FattoVirginia della Sala. Sorprende che questo studio, pubblicato a luglio, prenda in considerazione il solo periodo 2004-2010 e non riflette la situazione dopo l’entrata in vigore della legge 240/2010, “legge Gelmini”. Da allora le cose sono peggiorate, e in modo strutturale, cioè al netto dei casi di pastette, corruzioni e scambi di favori.
PER ENTRAREin università vi sono due tipologie di concorsi: quelli per ricercatore e quelli per associato e ordinario. I ricercatori possono essere “A” (durata: 3 anni) e“B” ( a nc h’essi 3 anni, ma trasformabili in associati, senza ulteriore concorso, previo conseguimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale). Le commissioni per questi posti da ricercatore sono stabilite da ogni Ateneo secondo criteri variabili, e designate dal Dipartimento che bandisce, per lo più su proposta del professore della disciplina in questione (spesso membro interno nella commissione medesima). Inoltre, questi posti configura- no un profilo scientifico che (mettiamola così) richiama quello di uno dei candidati, normalmente proprio quello interno: ciò vale non solo per i “progetti” dei ricercatori A (che bene o male durano solo 3 anni), ma anche per i bandi per ricercatore B, che invece prefigurano dei professori associati in pectore, e che possono essere non in “Letteratura greca”, e nemmeno in “Poesia greca arcaica e classica”, ma direttamente in “La nuova musica di Melanippide di Melo”. Indipendentemente dal valore dei ricercatori, insomma, questi posti sono spesso assegnati a priori.
Per diventare professori c’è invece bisogno dell’A bi l it a z io n e Scientifica Nazionale, tramite un concorso che non prevede né una graduatoria tra i vincitori né un limite di abilitati: finisce così che il titolo in sé non vale praticamente più nulla e serve solo a creare illusioni in bravi ricercatori. I giochi si fanno seri solo quando un Ateneo bandisce un posto tramite concorso che, in base alla legge Gelmini, può essere “ex art. 24” oppure “ex art. 18”. La prima è riservata a chi è già in servizio nello stesso Ateneo: questa “riserva” è volta a garantire la progressione di carriera a chi era ricercatore a tempo indeterminato (figura messa a esaurimento dalla Gelmini stessa), e pesa spesso per oltre la metà dei concorsi banditi da ogni sede: a questi concorsi si presenta di norma un unico abilitato interno di ogni settore, la composizione della commissione è praticamente ininfluente.
I concorsi “ex art. 18” sono invece aperti a tutti gli abilitati, dunque non solo a chi è esterno all’Ateneo che bandisce, ma anche a chi non lavora proprio in università, ma insegna al liceo e fa ricerca, oppure fa ricerca all’estero, o è precario. Si dà il caso, però, che le commissioni di questi concorsi siano non di rado “no min at e” d al Dipartimento, e solo a volte (e solo in parte) sorteggiate; che non di rado i “profili” dei vincitori - pur teoricamente proibiti dalla legge Gelmini come criteri di valutazione - sembrino ( di nuovo) cuciti addosso al vincitore predestinato; che talora le commissioni debbano indicare non uno bensì 2 o 3 vincitori ex aequo, lasciando poi libera (libera?) scelta al Dipartimento che bandisce. Ma soprattutto la promozione di un interno “costa” 0,2 o 0,3 punti organico (rispettivamente associato e ordinario), mentre la vittoria di un esterno ne costa 0,7 o 1, un’enormità. Il risultato è che nessun Dipartimento può permettersi “sorprese” (vittorie di esterni non preventivate), altrimenti tutta la sua programmazione va a pallino. L’esame a campione di bandi “ex art. 18” negli ultimi anni, da Palermo a Torino, mostra che la percentuale dei vincitori esterni è non di rado inferiore al 10%. Si salvaguardano le “scuole” locali, certo; ma che senso ha fare concorsi?
LA LIBERALIZZAZIONE selvaggia con l’abolizione dei concorsi nazionali non è una soluzione auspicabile, in un Paese così poco aduso a meccanismi di competizione trasparente. Né bisogna idealizzare i sistemi di altri Paesi: anche in Germania (dove la carriera interna è proibita per legge) o in Francia (dove i concorsi hanno commissioni vaste, e cadenza più regolare) ci sono problemi. Né infine va santificata la chiamata diretta dall’estero, non è affatto vero che i ricercatori che lavorano fuori d’Italia siano naturaliter migliori di quelli che lavorano qui e perché i vincitori di ricchi progetti europei non sono di norma ricercati dalle università per la loro qualità o per il loro inserimento in una qualsivoglia politica della ricerca, ma essenzialmente per i soldi che portano in cassa, in un sistema che soffre di un cronico sottofinanziamento, cui nessun governo ha voluto porre rimedio.