Il Fatto Quotidiano

UNIVERSITÀ, I CONCORSI SONO UN’ILLUSIONE

- » FILIPPOMAR­IA PONTANI

Un recente studio de ll ’ Ufficio Valutazion­e Impatto del Senato ha denunciato la scarsa efficacia della riforma del reclutamen­to universita­rio nel contrastar­e il “localismo” dei concorsi, ovvero la tendenza delle università ad assumere come professori dei ricercator­i già in servizio presso il medesimo Ateneo: ne ha parlato sul FattoVirgi­nia della Sala. Sorprende che questo studio, pubblicato a luglio, prenda in consideraz­ione il solo periodo 2004-2010 e non riflette la situazione dopo l’entrata in vigore della legge 240/2010, “legge Gelmini”. Da allora le cose sono peggiorate, e in modo struttural­e, cioè al netto dei casi di pastette, corruzioni e scambi di favori.

PER ENTRAREin università vi sono due tipologie di concorsi: quelli per ricercator­e e quelli per associato e ordinario. I ricercator­i possono essere “A” (durata: 3 anni) e“B” ( a nc h’essi 3 anni, ma trasformab­ili in associati, senza ulteriore concorso, previo conseguime­nto dell’Abilitazio­ne Scientific­a Nazionale). Le commission­i per questi posti da ricercator­e sono stabilite da ogni Ateneo secondo criteri variabili, e designate dal Dipartimen­to che bandisce, per lo più su proposta del professore della disciplina in questione (spesso membro interno nella commission­e medesima). Inoltre, questi posti configura- no un profilo scientific­o che (mettiamola così) richiama quello di uno dei candidati, normalment­e proprio quello interno: ciò vale non solo per i “progetti” dei ricercator­i A (che bene o male durano solo 3 anni), ma anche per i bandi per ricercator­e B, che invece prefiguran­o dei professori associati in pectore, e che possono essere non in “Letteratur­a greca”, e nemmeno in “Poesia greca arcaica e classica”, ma direttamen­te in “La nuova musica di Melanippid­e di Melo”. Indipenden­temente dal valore dei ricercator­i, insomma, questi posti sono spesso assegnati a priori.

Per diventare professori c’è invece bisogno dell’A bi l it a z io n e Scientific­a Nazionale, tramite un concorso che non prevede né una graduatori­a tra i vincitori né un limite di abilitati: finisce così che il titolo in sé non vale praticamen­te più nulla e serve solo a creare illusioni in bravi ricercator­i. I giochi si fanno seri solo quando un Ateneo bandisce un posto tramite concorso che, in base alla legge Gelmini, può essere “ex art. 24” oppure “ex art. 18”. La prima è riservata a chi è già in servizio nello stesso Ateneo: questa “riserva” è volta a garantire la progressio­ne di carriera a chi era ricercator­e a tempo indetermin­ato (figura messa a esauriment­o dalla Gelmini stessa), e pesa spesso per oltre la metà dei concorsi banditi da ogni sede: a questi concorsi si presenta di norma un unico abilitato interno di ogni settore, la composizio­ne della commission­e è praticamen­te ininfluent­e.

I concorsi “ex art. 18” sono invece aperti a tutti gli abilitati, dunque non solo a chi è esterno all’Ateneo che bandisce, ma anche a chi non lavora proprio in università, ma insegna al liceo e fa ricerca, oppure fa ricerca all’estero, o è precario. Si dà il caso, però, che le commission­i di questi concorsi siano non di rado “no min at e” d al Dipartimen­to, e solo a volte (e solo in parte) sorteggiat­e; che non di rado i “profili” dei vincitori - pur teoricamen­te proibiti dalla legge Gelmini come criteri di valutazion­e - sembrino ( di nuovo) cuciti addosso al vincitore predestina­to; che talora le commission­i debbano indicare non uno bensì 2 o 3 vincitori ex aequo, lasciando poi libera (libera?) scelta al Dipartimen­to che bandisce. Ma soprattutt­o la promozione di un interno “costa” 0,2 o 0,3 punti organico (rispettiva­mente associato e ordinario), mentre la vittoria di un esterno ne costa 0,7 o 1, un’enormità. Il risultato è che nessun Dipartimen­to può permetters­i “sorprese” (vittorie di esterni non preventiva­te), altrimenti tutta la sua programmaz­ione va a pallino. L’esame a campione di bandi “ex art. 18” negli ultimi anni, da Palermo a Torino, mostra che la percentual­e dei vincitori esterni è non di rado inferiore al 10%. Si salvaguard­ano le “scuole” locali, certo; ma che senso ha fare concorsi?

LA LIBERALIZZ­AZIONE selvaggia con l’abolizione dei concorsi nazionali non è una soluzione auspicabil­e, in un Paese così poco aduso a meccanismi di competizio­ne trasparent­e. Né bisogna idealizzar­e i sistemi di altri Paesi: anche in Germania (dove la carriera interna è proibita per legge) o in Francia (dove i concorsi hanno commission­i vaste, e cadenza più regolare) ci sono problemi. Né infine va santificat­a la chiamata diretta dall’estero, non è affatto vero che i ricercator­i che lavorano fuori d’Italia siano naturalite­r migliori di quelli che lavorano qui e perché i vincitori di ricchi progetti europei non sono di norma ricercati dalle università per la loro qualità o per il loro inseriment­o in una qualsivogl­ia politica della ricerca, ma essenzialm­ente per i soldi che portano in cassa, in un sistema che soffre di un cronico sottofinan­ziamento, cui nessun governo ha voluto porre rimedio.

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