ADDIO A ROSSI, IL CHIRURGO DELLE IMPRESE
Guido Rossi, che si è spento ieri a 86 anni nella sua Milano, sarà ricordato come il grande chirurgo del capitalismo italiano. Giurista raffinatissimo e polemista brillante (sua la memorabile definizione del governo D’Alema come “l’unica merchant bank dove non si parla inglese”), ha dedicato metà della sua vita alla diagnosi spietata delle malattie delle grandi imprese. L’altra metà l’ha spesa come manager: quando c’era bisogno di un miracolo chiamavano lui.
È STATO PRESIDENTE della Consob degli albori. Nel 1987 il Pci lo elesse senatore e Rossi si battè con successo per dare all’Italia quella legge antitrust che gli Stati Uniti avevano da un secolo. È stato l’avvocato d’affari per antonomasia. Più bastonava i capitani di sventura e il loro vizio di giocare con carte truccate, più loro andavano a chiedere consigli e patrocinio per le continue risse legali che li mettevano uno contro l’altro. E infatti l’unanime ammirazione per le sue qualità di studioso era accompagnata da giudizi opposti sulla qualità di gioco espressa in campo.
Nel 1985 la Montedison di Mario Schimberni scalò la Bi-Invest della famiglia Bonomi, un attacco senza precedenti a una famiglia del salotto buono. Rossi era consulente dei Bonomi e l’allora boss della Fiat Cesare Romiti lo accusò senza mezzi termini di fare il doppio gioco. Il fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia – grande regista del potere finanziario che preferiva il potere al denaro – non lo amava perché lo trovava troppo attento alle parcelle. Come quasi tutti i grandi chirurghi, Guido Rossi era un professionista caro.
Si è trovato al centro delle più grandi partite finanziarie a cavallo del secolo. Nel 1993 la famiglia Ferruzzi, messa alle corde dall’inchiesta Mani pulite, gli affidò la presidenza della Montedison, affian- candogli il manager Enrico Bondi per la parte operativa. Pochi giorni dopo ci fu il suicidio di Raul Gardini, che fino a quei giorni tragici aveva retto il timone del gruppo di Ravenna. E nel giro di una settimana Rossi chiese e ottenne dal tribunale di Milano il sequestro di 500 miliardi di lire ai Ferruzzi. I detrattori la giudicarono una prova di slealtà verso la famiglia che si era affidata a lui. I suoi ammiratori apprezzarono la fermezza con cui segnalò alla magistratura le malefatte compiute nel gruppo che era stato protagonista dello scandalo Enimont.
Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi nel 1997 affidarono a Rossi, nominandolo presidente, la privatizzazione di Telecom Italia. Con il senno di poi è stata giudicata un mezzo disastro e causa principale del caos odierno delle telecomunicazioni italiane. Ma in quel caso Rossi fece bene la sua parte. Come fece benissimo il suo mestiere quando gli olandesi della Abn Amro gli chiesero aiuto nell’estate 2005 per fermare la scalata della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani all’Antonveneta. Rossi si rivolse alla procura di Milano, con la quale è sempre stato accreditato di rapporti talmente buoni da alimentare leggende. Le scalate bancarie (con Fiorani e furbetti del quartierino vari) furono fermate con le maniere forti.
L’ANNO DOPO Rossi fa il suo ultimo grande giro di pista. Prima viene nominato commissario della Figc travolta dallo scandalo Moggi. La vittoria ai mondiali 2006 in Germania non attenua l’ira del mondo juventino per la scelta di un uomo che aveva a lungo militato nel cda dell’Inter del suo amico Massimo Moratti. Poi, a metà settembre Marco Tronchetti Provera – un altro amico interista – gli lascia la presidenza di Telecom Italia nel pieno di uno scontro durissimo con il governo Prodi e delle polemiche sullo scandalo dei dossieraggi illegali. La controversa vicenda vicenda si è chiusa con Tronchetti che ha perso il controllo dell’azienda. E anche questo aiuta a capire perché il chirurgo è stato così tanto amato ma anche così tanto odiato.
È MORTO A 86 ANNI Giurista, scrittore, manager, presidente di Consob e Telecom, poi commissario straordinario della Figc del dopo Calciopoli