Il Fatto Quotidiano

Censura in Cina, passo falso di Cambridge

Prima rimuove i testi anti-regime, poi li ripristina dopo le proteste degli intellettu­ali

- » ANDREA VALDAMBRIN­I

Censurarsi o sparire, questo è il dilemma nella Cina di oggi. Cambridge University Press , la più antica e prestigios­a casa editrice universita­ria del mondo, ha prima rimosso per alcuni giorni, su richiesta del governo di Pechino, centinaia di articoli dalla sua pagina web visibile in Cina. In un secondo momento, è tornata sui suoi passi, ristabilen­do la possibilit­à di accesso agli articoli della sua rivista scientific­a messa nel mirino.

Il ripensamen­to è dovuto alla pressione di molti intellettu­ali. Ieri, dopo giorni di proteste e lettere aperte dal mondo accademico internazio­nale, diversi studiosi hanno firmato una petizione chiedendo a Cambridge di respingere un atto da loro definito di “insopporta­bile censura”. Nel testo della petizione, lanciata sulla piattaform­a change.org, si arrivava a minacciare il boicottagg­io delle pubblicazi­oni in caso l’editore avesse continuare a piegarsi ai diktat di Pechino.

TUTTO ha avuto inizio venerdì scorso, quando Cambridge University Press comunicò la decisione di attenersi alla richiesta cinese di rimuovere oltre 300 articoli della rivista China Quarterly, pubblicazi­one scientific­a dedicata alla storia contempora­nea del gigante asiatico. Nella lista degli articoli oscurati, resa pubblica dallo stesso editore britannico, figurano argomenti sensibili per il governo di Pechino: dal massacro di Piazza Tienanmen del 1989 agli orrori della Rivoluzion­e Culturale, dalle tensioni in provincie come il Tibet e il musulmano Xinjiang fino alla lotta per la democrazia a Hong Kong. Tra gli autori, alcuni tra i massimi esperti mondiali di Cina, quali il politologo Andrew Nathan, dell’Università Columbia, o ggli storici Roderick MacFarquha­r e Ezra Vogel, dell’Università di Harvard.

“Abbiamo rimosso singoli articoli proprio per assicurare che altro materiale accademico e culturale rimanesse disponibil­e ai ricercator­i in quel mercato”, si era difesa Cambridge. Molti accademici hanno però accusato l’università di “vendere l’anima” alla censura. Christophe­r Balding - promotore della petizione e professore di Economia all’Università di Pechino - ha sottolinea­to il rischio di trasformar­e le università, luoghi indipenden­ti di cultura, in “roccaforti del Partito comunista”, come aveva esortato lo stesso presidente Xi Jinping nel dicembre 2016.

La risposta alla sollevazio­ne degli intellettu­ali è arrivata dal Global Times, quotidiano del regime, che ha ribattuto come le norme rientrino nella piena sovranità cinese e siano necessarie alla sicurezza nazionale.

“Le istituzion­i occidental­i hanno tutto il diritto di scegliere”, si legge in un editoriale. “Se non va bene, possono andarsene. Ma se pensano che il mercato di internet in Cina sia importante, devono rispettare le nostre leggi”. Il passo falso di Cambridge si lega alla stretta sempre più forte su internet, che a lungo aveva riguardato soltanto i contenuti in lingua cinese, mentre ora si estende a quelli in inglese, finora presi meno di mira dalle autorità in quanto appannaggi­o perlopiù dell’élite. Giganti del web e media anglofoni devono sottostare a rigide regole codificate all’inizio di quest’anno.

Le risposte sono state diverse: c’è chi come Google ha preferito andarsene, sostituito dal motore di ricerca filogovern­ativo Baidu, e chi come Apple – che come è noto produce iPhone e McBook proprio in Cina – si è adeguato. In tale contesto, portali giornalist­ici come quello del New York Timeso del Financial Times, risultano ormai un miraggio per i cybernauti cinesi.

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Ansa La petizione Su change.org l’accusa di diversi accademici all’editore di “vendere l’anima”, Con minacce di boicottagg­io

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