Natale in casa Cameron: Genovese, ziti e tuffo libero
La mia compagna propone di cucinare il tipico ragù napoletano. Ma siamo in trenta ospiti: occorrono 3 chili di carne, 5 di cipolle e quasi 4 di pasta. In pratica, un suicidio
Dice ma io non fumo. E io sì. E c’è poco da scherzare, dopo trenta ore di astinenza, la prima cosa che vuoi appena metti piede in un aeroporto è fumare, se te lo impediscono diventi pazzo. E ricorri a ogni miserabile espediente per farti passare la voglia. Anche quello di chiuderti nel cesso dello scalo, infilare la bocca con sigaretta accesa in un sacchetto di carta e fare almeno due tiri. Ciò detto welcome in New Zealand.
MA TORNIAMOal pranzodel Natale estivo. L’idea del gentile omaggio matura (a mia completa insaputa) pochi giorni prima della partenza. “Prepariamo un primo italiano”, esclama la mia compagna di vita, ovviamente neozelandese di nascita e dotata di sterminata parentela. Resisto: “Ma no, portiamo qualche bottiglia di vino”. “Banale, facciamo un primo”, è l’insistente risposta. Cedo: “Vabbuò, uno spaghetto, ’na cosetta semplice”. Implacabile: “No, lo spaghetto è scontato. Facciamo la Genovese”.
E a questo punto dobbiamo fermarci e spiegare cos’è la Genovese, sua maestà. È un piatto tipicamente napoletano e totalmente ignorato dai genovesi. Contende il primato della tavola domenicale dei figli di Partenope al più noto ragù. Le discussioni sulle sue origini sono infinite e a Napoli dividono studiosi e teorici. Tracce della ricetta si trovano nel periodo aragonese. Qualcuno azzarda, ma a rischio di essere preso a pernacchie, che a inventare la ricetta sia stato Federico II di Svevia, ma voi immaginate “Stupor Mundi” alle prese con pentole e fornelli? A sistemare, finalmente, le cose provvide il duca Ippolito Cavalcanti che nel 1837 diede alle stampe un suo Trattato di cucina teorico pratica e indicò ingredienti e tempi di cottura del famoso piatto. Chiarite le diatribe storiche, passiamo alla ricetta. Micidiale.
La Genovese è un sugo di carne e cipolle (ogni chilo di carne due di lacrimevoli bulbi) che richiede tempi di cottura lunghissimi, 3, 4, anche 5 interminabili ore. Tutti elementi che mi portano a rite- nere un suicidio l’idea di fare questo piatto a 20 mila chilometri di distanza. “Ma come si fa? Ci vogliono le cipolle, quelle ramate di Montoro, e poi la carne, serve il girello, la colarda, l’annecchia, il gammuncello, insomma parole che manco esistono nel vocabolario inglese”. Niente da fare, tutto è stato organizzato alle mie spalle, anche l’acquisto della pasta, il formato obbligatorio per la Genovese: gli ziti, o zite (e vi risparmio la disputa terminologica), dell’olio e del parmigiano, alimenti che sopporteranno bene il viaggio infinito. “Ma a questo pranzo in quanti siamo?”, è la domanda. La risposta fa deflagrare la tragedia: “Trenta”. Bastano due conti: bisogna far cuocere almeno 3 chili di carne, accompagnati da cinque di cipolla e poi condire almeno 3 chili di pasta. Una telefonata all’alba, colpa dei calcoli sbagliati sul fuso orario, al mio amico Pietro Parisi, il “cuoco contadino”, fa lievitare le mie preoccupazioni. “Pietro come faccio?. “Lascia perdere che è meglio”. Bisogna cuocere il sugo il giorno prima.
Siamo a casa di David Cameron, imprenditore con un fulgido passato da aviatore (cartello d’ingresso: “Qui abitano un aviatore e una persona normale”). Come in tutte le case in Nuova Zelanda, c’è tutto: giardino enorme, grandissimo barbecue ( ci puoi cuocere anche uno zebù), ma cucina, nel senso di fornelli, piccolissima. Buona per fare un tè, una minestrina, as solu tame nte inadatta per far cuocere un pentolone con la Genovese. Fortunat amente vince l’eterna arte di arrangiarsi e il sugo è sul fuoco. Cuoce lentamente, e dopo cinque ore è pronto. L’aspetto è quello giusto, colore del manto del monaco, il sapore pure.
IL GIORNO DOPO , Natale, siamo a Fielding, a casa di Lewis Cameron, patriarca di una famiglia sterminata, quattro figlie femmine e un unico maschio, David l’aviat ore. Lewis ha una tribù di nipoti e una moglie, Caterina, che sa tutto dell’Italia. Mi mostra le foto dei suoi inizi, lui ragazzo che spinge un carretto di ferraglie, ora, a 80 anni, è a capo di un piccolo impero che si occupa di depurazione delle acque. La casa è enorme, su un piano solo e circondata da un giardino con piscina. C’è l’albero e la tavola è piena di ogni ben di dio, ma tutti aspettano la Genovese. Mentre diverse pentole bollono per la pasta, mi sento come Antonio Ponto, il primo italiano a mettere piede “to the ends of the earth”, col capitano James Cook nel 1769. Dice che pure lui era del Sud e amava cucinare.
Gli ziti, o zite, sono pronti, i piatti abbondantemente conditi con il sugo della Genovese, il parmigiano grattato al momento da mio figlio James (che accompagna il tutto con una nenia non propriamente natalizia: “sempre voi co’ ’ste idee del c…”). Attimi di suspense, papille gustative in fibrillazione per il nuovo e sconosciuto sapore. Esclamazioni, “my God”, “this is amazing”. Applausi. Poi tutti in piscina. Io no, cerco un angolo del giardino dove fumare una sigaretta in assoluta clandestinità. Il bagno a Natale non lo faccio. Mi sembra brutto.
Preparativi della vigilia Fortunatamente vince l’eterna arte di arrangiarsi e il sugo è sul fuoco Cuoce lentamente, e dopo cinque ore è pronto: l’aspetto è quello giusto
FESTE AL SOLE
“My God!”, applausi. Tutti apprezzano il piatto, poi si buttano in piscina Io no, a dicembre mi sembra brutto