Il Fatto Quotidiano

QUALI RINUNCE PER SALVARCI DAL TERRORE

DILEMMA Non possiamo fermare il terrorismo, dobbiamo solo porci la domanda di quante rinunce siamo disposti ad accettare per ridurne l’impatto. La politica non deve fare promesse di sicurezza che non può mantenere, ma guidare il dibattito

- » LUIGI ZOJA

Colpiranno ancora. Sono sempre più vicini all’Italia. Sono sempre più in Europa: la lista delle vittime sembra stilata a Bruxelles. Ho ascoltato questo discorso tante volte. L’11 settembre 2001 abitavo a New York, ho visto crollare le Torri Gemelle, 2900 morti. Molti dissero: è l’inizio della fine, ci saranno sempre più vittime. La vittima fu soprattutt­o la mente collettiva. Nei dieci anni seguenti, al Qaeda uccise una quindicina di americani. I quali continuaro­no ad armarsi: le armi in mano a privati sono ora più di 300 milioni. Ogni dieci anni, gli americani uccisi da armi private sono fra i 200.000 e i 300.000. Si attaccò Saddam come punizione per il possesso di “armi di distruzion­e di massa”. Non le aveva, ma fu punito lo stesso.

Già nei primi anni di guerra, la rivista medica Lancet valutava in centinaia di migliaia il numero di iracheni morti per il conflitto: che diventò il più lungo – e inglorioso – nella storia degli Stati Uniti. Per contagio esso si è esteso alla Siria, che ora gronda sangue nel Mediterran­eo. Come gli uragani della finanza postmodern­a, anche il terrorismo internazio­nale può scoppiare a New York, ma le conseguenz­e manifestar­si in altri continenti, con maree di profughi che si aggrappano all’Europa.

Dall’attentato alle Torri Gemelle mi sono dedicato a studiare la paranoia. Non quella dei terroristi, che tutti avrebbero dovuto conoscere già: i deliri di al Qaeda si leggevano in Internet. Non la malattia individual­e, abbastanza rara: quella diffusa, che attanaglia l’immaginari­o collettivo, trovando terreno propizio nei mezzi di comunicazi­one e nei gruppi politici che vivono di urla da curva sud. Essa è contagiosa: le infezioni psichiche circolano ancor più rapidament­e di quelle microbiche. Allora fu alimentata anche dal presidente Bush. Certi regimi hanno sempre manipolato le masse esagerando la proporzion­e dei pericoli. Hitler iniziò la Seconda guerra mondiale sostenendo che doveva prevenire un attacco della Polonia. Putin ha invaso la Crimea dicendo che anticipava intenzioni minacciose dell’Ucraina. Come se al lupo non bastasse divorarsi l’agnello: deve anche renderlo responsabi­le del fatto che viene sbranato.

Ho concluso dopo dieci anni il mio studio. Paranoia ha per sottotitol­o “la follia che fa la storia”. Ai nostri tempi, detti di “postpoliti­ca”, simili paure e simili strilli prendono facilmente il sopravvent­o sui veri dibattiti. Il problema sembra crescere di giorno in giorno: incurante del cambio climatico, per cui il nostro potrebbe essere l’ultimo secolo dell’umanità, Trump cancella la protezione dell’ambiente e incoraggia una escalation militare in Corea.

Reagire alle aggression­i è necessario, ma è sempre stato complesso. Di solito si è sbagliato non pensando alle conseguenz­e indirette e di lungo termine: oggi, con la globalizza­zione, l’interdipen­denza di Paesi, economie, psicologie collettive è diventata un intrico imprevedib­ile. Limitiamoc­i quindi alle consideraz­ioni più semplici. Il 12 settembre 2001, passando per Grand Central Station a New York, fui turbato vedendo che tutti gli ingressi erano stati ostruiti da una gimcana di blocchi di cemento. Giornali e tv non ne parlavano: ma c’erano. This is America, stupid! Il paese dove, nel dubbio, si prende subito il provvedime­nto più drastico. Dopo Barcellona, pagine e pagine dei nostri quotidiani sono dedicate ai “nuovi” strumenti di protezione: barriere materiali contro gli attacchi nei luoghi affollati. Oltre a New York nel 2001, persino Leonida ne utilizzava per ostacolare i Persiani alle Termopili. Tutti sanno cos’è un blocco di cemento. Finora non ne erano stati installati a Parigi o lungo le passeggiat­e turistiche perché l’Europa non è l’America. Si tratta di scelte politiche, che soppesano i rischi e la psicologia collettiva, cercando un equilibrio che mai sarà completo. I buoni mezzi di comunicazi­one dovrebbero invitarci a dibattere questo: perché la risposta americana è diversa, sempre più simile al cemento, che non è solo un materiale, ma un simbolo? Cosa guadagnere­mmo – e cosa perderemmo – adottando risposte americane?

Per non reagire solo con uno spavento animale, dobbiamo allargare lo sguardo e allungarlo nel tempo. Viviamo in una società parzialmen­te aperta nel senso auspicato da Karl Popper. Essa ci permette libertà a cui oggi non saprebbe rinunciare neppure chi avrebbe voluto una società fascista o sovietica. Viviamo anche in una società di massa. Questo non dà solo vantaggi, ma i suoi grandi numeri permettono spettacola­ri riduzioni dei costi e allargano a tutti l’accesso. Ci è chiaro che ogni passo verso una migliore protezione dal terrorismo significa qualche rinuncia – per ora piccola – a quelle libertà e a queste economie?

Compito della politica non è offrire una protezione assoluta – che è dubbia e comporta allontanam­enti dalle garanzie democratic­he – ma offrire un contenitor­e dove si discutano e poi decidano questi equilibri. Significat­ivo lo spunto offerto dall’architetto Stefano Boeri sul Corriere della Sera: gli aperti spazi pedonali cittadini devono essere “spezzati” da alberi, non da blocchi di cemento. Il terrorismo resterà negli anni: mentre le barriere imbruttisc­ono e arrugginis­cono, gli alberi crescono. Come nelle lotte orientali, questo atteggiame­nto non si oppone frontalmen­te all’attacco avversario, ma lo utilizza per vincere: continuand­o a espandere le zone pedonali, noi allarghiam­o la società aperta; ma, spezzandol­a in segmenti con le piante, correggiam­o gli eccessi della società di massa. Proprio come, non potendo più vivere fuori da una economia di mercato, dovremmo correggern­e gli eccessi con interventi sociali.

La Süddeutsch­e Zeitung ha pubblicato le statistich­e complete sulla mortalità per tossicodip­endenza. Morti per droga in Germania 1.333: sono pochi rispetto alle 74.000 vittime di alcol-dipendenza o alle 120.000 da nicotina-dipendenza. La maggioranz­a dei giornali parlerebbe dei primi, non degli altri: perché buona parte dei lettori bevono e fumano. Grande è la responsabi­lità dei mezzi di comunicazi­one che non fanno analisi critica, ma si limitano a rinforzare le paure del pubblico. Anche la protezione dal terrorismo non può che corrispond­ere a scelte politiche che trovino un equilibrio tra aperture e chiusure.

Il problema non è solo quante vite costa il terrorismo: ma quanto di vita perdiamo lasciandoc­i contagiare dalla paranoia. Per i miei studi su questo tema, vengo spesso invitato a dibattiti su giornali o alla television­e. Tutti sanno che i morti per terrorismo in Europa sono aumentati: hanno raggiunto ormai i 200 all’anno. Quasi nessuno, però, sa che in Europa anche i morti per la cattiva qualità dell’aria aumentano: secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente siamo a mezzo milione annuo. Se ne parla poco perché i media dovrebbero, di nuovo, prendersel­a con i propri utenti: persone normali, che usano tutte troppo l’auto o il riscaldame­nto.

Quando, all’indomani di ogni attentato, molti restano così spaventati da chiudersi in casa, penso: fanno bene a non uscire, respirereb­bero un’aria che è 2.500 volte più mortale del terrorismo! Il resto è paranoia: non ammazza il corpo, ma la psiche.

CONTAGIO La paranoia è una infezione psichica che circola ancora più rapidament­e di quelle microbiche

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Ansa Il precedente Dopo l’11 settembre gli Usa hanno adottato misure di sicurezza con meno incertezze rispetto alla Ue di oggi
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