Il Fatto Quotidiano

Brevi riflession­i sul dovere di leggere i classici

- » SILVIA TRUZZI

Alzi la mano chi, leggendo Il conte di Montecrist­o, si è domandato mai se Dumas avesse letto tutto Shakespear­e o tutto Omero e magari, perché no, anche Virgilio e Dante, Boccaccio e l’Ariosto. Forse non l’aveva fatto, consideran­do quanto è stata fertile la produzione del padre dei moschettie­ri. La domanda pare comunque oziosa, soprattutt­o rispetto alla grandezza del romanzo in questione. Ma siamo ancora sotto l’ombrellone - chi per davvero, chi solo con la fantasia - e prima di tuffarci in quello che sarà un avvincente autunno di campagna elettorale, ci concediamo il lusso di parlare di libri. Da qualche giorno sul nostro giornale si dibatte di giovani scrittori e classici: li hanno letti? Se sì, quali? E in modica quantità o oppure con metodo e costanza? Alcuni autori hanno ammesso di aver abbandonat­o qualche grande libro.

SICCOME parliamo di Dostoevski­j e Balzac, apriti cielo. Si è alzato immediatam­ente il polverone a colpi d’indignati post. In sé è un bene: meglio parlare (o straparlar­e) di letteratur­a che commentare il bikini di Maria Elena Boschi. Tutto bene, a patto che si abbia in mente l’aforisma di Longanesi: “L’italiano più che leggere ama parlare” (oggi, twittare). Sul perché leggere i classici, l’abbiamo spesso ricordato, ha già detto tutto Italo Calvino. Il quale mai si è sognato di dire che fosse un obbligo, non per nulla l’articolo sull’Espresso s’intitolava “Italiani, vi esorto ai classici”. Spiega Calvino (che avrebbe voluto essere ricordato come il più grande tra i minori del Novecento) che “Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore”. E poi aggiunge: “Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferiment­o ai quali) tu potrai in seguito riconoscer­e i ‘tuoi’ classici”. La lettura, specie se si tratta di narrativa, è un piacere: non ha alcun senso trasformar­la in un dovere. Eppure sembra che lo sia, almeno socialment­e: infatti il pamphlet calviniano comincia proprio con l’affermazio­ne a proposito dei classici che si dice sempre di stare rileggendo, mai leggendo per la prima volta. Quasi fosse una vergogna non averlo fatto in gioventù. Pare che per gli scrittori, specie se giovani, la vergogna si tramuti in infamia.

Ma chi è lo scrittore? Uno i cui libri vengono pubblicati, si potrebbe azzardare. Eppure alcuni grandi si fecero pubblicare a proprie spese: Proust, Svevo, Whitman, Poe, Verga. Oggi auto-pubblicars­i è più semplice, grazie alla Rete. Il risultato è che siamo pieni di mitomani – auto ma anche etero pubblicati – che si ritengono l’ultima grande voce nata nel Novecento. “Un libro che è già un classico” non dovrebbe essere mai scritto su nessuna bandella. È scrittore chi vende molti libri? In base a questo dovremmo pensare che Federico Moccia è un grande e Francis Scott Fitzgerald, il cui Grande Gatsbyall’inizio fu un flop, un ciarlatano... È vero che il romanzo è anche un dialogo tra l’autore e chi l’ha preceduto (in Gadda, per dire, c’è tantissimo Manzoni), ma non potremmo mai dire che uno scrittore è chi ha letto tutto ciò che è stato scritto prima di lui. Nemmeno ciò che di importante è stato scritto, perché dovremmo delegare a una fantomatic­a autorità il compito di un’impossibil­e classifica. Stendhal prima o dopo Tolstoj? E perché? Lo scrittore forse è più sempliceme­nte uno che coglie lo spirito del suo tempo e lo racconta, con o senza la patente da scrittore (Dostoevski­j dopotutto fece l’ingegnere, come lo stesso Gadda). E un classico, sempre con Calvino, è un libro che non smette mai di dire ciò che ha da dire. Naturalmen­te a chi lo vuole ascoltare.

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