Il Fatto Quotidiano

A fatica abbatto “The Wall” del marziale Dio Roger

Sono l’unico italiano all’incontro con Waters

- » ANDREA SCANZI

Una cosa anche bella, solo che il fidanzato era Pete Doherty e lui, chiarament­e imbenzinat­o come neanche Keith Richards, non la prese benissimo.

Bei tempi. Quando però Marco Travaglio mi ha imposto di narrare una cosa surreale capitatami, e se rispondevo di no era già pronta la mia cessione al Foglio con Niang, Belotti e la comproprie­tà di Kubilay Türkylmaz, ho pensato che il racconto non avrebbe potuto che riguardare la mia intervista con Dio.

COME NOTO, Dio è Roger Waters. Come altrettant­o noto, l’ho intervista­to per questo giornale e la bellezza del nostro colloquio è stata tale che anche Philip Roth ha esclamato: “Cazzo, era davvero buona Andrea!”. Lo ringrazio. Raramente però le cose belle sono facili. Prima dell’agnizione c’è sempre il dolore. Tanto dolore.

Se dovessi citare i tre grandi miti della mia vita, non avrei dubbi: i tacchi di Olivia Newton John in Grease, Zagor Te-Nay e Roger Waters. Roger è sempre stato un punto di riferiment­o irrinuncia­bile. Genio di dimensioni oscene e uomo di conclamato fascino, soprattutt­o quando da giovane imitava con efficacia l’ominide di Cro Magnon nel Live at Pompei, Waters non è solo la mente sublime dei Pink Floyd: è anche il tipo meno allegro dell’Universo. In ogni sua canzone ci sono almeno dodici morti, tre bombardame­nti e un riferiment­o allo sbarco ad Anzio. Lì, nel 1944, morì suo padre Eric Fletcher. Per Roger tutto ruota attorno a quella perdita. Ma proprio tutto: se anche scrivesse una canzone sulla Citrosodin­a, sosterrebb­e che è stata inventata pensando a suo padre ad Anzio.

Avrei dato tutto per intervista­re Roger Waters. Persino la mia collezione di film sadomaso in VHS. Non ho però mai pensato di avere possibilit­à reali. Invece, ad aprile, la Sony mi dice di avermi scelto come unica firma italiana autorizzat­a ad avvicinars­i al Suo Cospetto. Deduco che abbia deciso così solo perché quel giorno Maria Lavia aveva il Subbuteo, e così si sono dovuti accontenta­re del primo che passava. È il 25 aprile, giorno della Liberazion­e: la data perfetta, quando stai per fronteggia­re l’A rm a g e ddon. In volo da Milano a New York ero felice. Emozionato. Terrorizza­to.

Di Roger Waters so tutto. Anche cose che lui stesso ignora. L’intervista non poteva che rivelarsi la più bella delle galassie. Già mi immaginavo Roger che, alla fine, mi diceva: “Ti va di incidere con me il seguito di T he Wall”. Certo che mi va: mi andrebbe anche di rileggere tutto Shine On You Crazy Dia mond con lo zufolo e Rondolino al banjo, se solo me lo chiedessi.

L’agnizione è alle 15 ore locali. Mi siedo, mi microfonan­o. Per stemperare la tensione, recito a memoria la formazione del Milan 96/97. Un Milan di merda, lo so, ma quando devo concentrar­mi faccio sempre così. Nel frattempo Lui è arrivato. Da vicino scopri che non è un uomo ma un fenicotter­o: ha gambe lunghissim­e e busto da lillipuzia­no. Si siede e ovviamente gli girano i coglioni. Odia le interviste e l’ultima volta che ha riso c’era ancora Cromwell. Penso alla prima domanda: devo stupirlo, non devo essere scontato. Devo conquistar­lo subito. La sparo, convinto di avere avuto un’idea genialis- sima. Sicurament­e Lui apprezzerà. Invece mi guarda male, cioè più male del solito, e sentenzia con aria livida e marziale: “Credo proprio che non hai capito il testo della mia canzone”.

VI RENDETE conto? Lo capite il dramma? Sei lì che vivi il momento da sempre sognato, che ti giochi ogni cosa, che sei a un passo dal nirvana. E sbagli tutto. È la fine. La gogna. L’abisso. Nulla ha più senso: uccidetemi, o peggio ancora iscrivetem­i al

Fan Club di Nardella. Dissimulo a fatica il dolore – un dolore indicibile – e calo la seconda domanda: se sbaglierò anche questa, Roger imbraccerà il fucile e mi mitraglier­à con giustezza, quasi come in Run Like Hell.

Non posso sbagliare: non posso. La domanda infatti è buona, o almeno così mi pare, ma Lui ferma tutto e dice: “Non mi funziona l’auricolare”. E fa per andarsene.

È davvero la fine. Nulla ha più senso. Lasciatemi qui col mio dolore, non merito di vivere: sono una persona vile, empia e fallace.

Inseguendo un colpo di reni immaginari­o, cerco un’ultima volta di far breccia sulla Linea Maginot Watersiana. Così, con un filo di voce, esalo la terza domanda. Non ci credo più: non ci spero più. Mentre già immagino la Picierno e Orfini che mi passano sotto casa con uno striscione enorme dal vago sapor petrarches­co (“S uk a! ”), accade l’imponderab­ile: Roger, il mio Roger, risponde. Perfino con garbo. E così per la quarta domanda. Per la quinta. E via così, fino alla fine. Ordina pure alla Sony di andare avanti un altro po’, sforando i venti minuti pattuiti. Sono così frastornat­o che non mi accorgo neanche che mi sorride – mi sor-ri-de! –. Poi mi stringe la mano, col vigore insindacab­ile di un Messer Satanasso momentanea­mente sereno. Quindi dice: “È stato un piacere”. E mi sorride ancora.

Lì, distintame­nte, mi sono sentito felice. Tanto felice. Infantilme­nte felice. La Sony mi ha scelto: posso finalmente avvicinarm­i al Suo Cospetto. È il 25 aprile, data perfetta per fronteggia­re l’Armageddon. In volo verso New York sono terrorizza­to

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