Il Fatto Quotidiano

Il Jobs Act è contro il lavoro: lo scopre anche il governo

Norme fatte maleTimori per licenziame­nti a gogò con lo stop agli sgravi, per assumere giovani con il nuovo bonus

- » ROBERTO ROTUNNO

Cosa accadrà nel 2018, una volta finiti gli incentivi alle persone assunte dal 2015 con il contratto a tutele crescenti? Tre anni fa, in pieno dibattito sul Jobs Act, quell'interrogat­ivo collocava, chiunque lo ponesse, nel girone dei gufi. Pensare che le imprese avrebbero prima usato lo sgravio in maniera opportunis­tica per poi liberarsi degli stessi lavoratori, una volta concluso il bonus, non preoccupav­a Matteo Renzi, allora premier, né il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. La fiducia nella ripresa e nelle politiche attive messe in piedi dalla riforma generava ottimismo.

OGGI, QUELLA che era definita una “gufata” è invece un problema posto in cima all'agenda politica dello stesso governo, che teme un'ondata di licenziame­nti nel 2018. Il motivo è che proprio il prossimo anno partiranno i nuovi incentivi per le assunzioni dei giovani (il che basterebbe per affermare che il Partito democratic­o riconosce implicitam­ente l’inefficaci­a del Jobs Act, altrimenti a che servirebbe un nuovo incentivo?). La paura è che il taglio al cuneo contributi­vo per l'occupazion­e degli under 32 (o forse under 29, lo si capirà in seguito) operi un semplice effetto sostituzio­ne. Le aziende potrebbero mandare a casa il lavoratore preso tre anni prima – che da quel momento costerà molto di più in termini di oneri – e reclutare il giovane per risparmiar­e sui tributi. Tanto più in assenza dell'art. 18, che – sempre grazie al Jobs Act – permette di cavarsela con l'indennizzo economico. Per evitare il buco nell'acqua, si sta pensando di prevedere – per chi vorrà usare il nuovo bonus giovani – un divieto di licenziare 6 mesi prima e 6 mesi dopo la nuova assunzione. Ovviamente, alle imprese che invece non usino il bonus nulla vieta di mettere alla porta gli assunti nel 2015. “Che il Jobs Act tolga diritti ai lavoratori è la più grande opera fantasy mai sentita”, diceva Renzi a novembre 2014. Oggi quel racconto di fantascien­za spaventa pure il Pd che sta pensando a come correre ai ripari. In molti, pochi mesi dopo l'insediamen­to dell'esecutivo Renzi, fecero notare i rischi nascosti dietro gli sgravi temporanei. Pier Carlo Padoan e Giuliano Poletti decisero comunque –

Che il Jobs Act tolga diritti ai lavoratori è la più grande opera fantasy mai sentita Tutele a singhiozzo Anche secondo il ministero

“gli ammortizza­tori sociali sono più deboli” MATTEO RENZI Novembre 2014

nella legge di Stabilità 2015 – di puntare sulla decontribu­zione non struttural­e, sperando di ottenere un boom immediato di nuova occupazion­e, materia spendibile per vincere il referendum costituzio­nale di fine 2016. Con il taglio totale di circa 8 mila euro per lavoratore “stabile”, i contratti avviati sono stati 1,6 milioni. Nel 2016, con il contributo dimezzato, le attivazion­i si sono ridotte di molto. Nei due anni di incentivi, il saldo positivo in termini di occupazion­e generale è stato di soli 400 mila posti e molti osservator­i lo collegano più che altro alla crescita che interessa tutto il continente (e che da noi è più lenta della media). Secondo l'Istat, nell'ultimo trimestre del 2014 i disoccupat­i under 34 erano 1,7 milioni; nel primo del 2017, invece, sono arrivati a quasi 1,5 milioni. Malgrado la cancellazi­one dell'articolo 18, due anni di incentivi e il programma Garanzia Giovani, più di metà dei disoccupat­i ufficiali si annida ancora tra i più giovani. Eppure, nelle intenzioni di Renzi, il Jobs Act doveva aiutare proprio loro: “È un giorno atteso da un'intera generazion­e – disse l'allora premier all'approvazio­ne – che ha visto la politica fare la guerra ai precari e non al precariato”. Parola, quest'ultima, che doveva essere consegnata al passato e invece è sempre più protagonis­ta del presente: a giugno 2017 si è raggiunto il record storico di occupati a termine (2,7 milioni).

Accanto all'abolizione del reintegro per i licenziati senza giusta causa e la fine degli incentivi, c'è un altro fattore che rischia di far perdere posti di lavoro: la riduzione della cassa integrazio­ne. Il Jobs Act ha deciso di limitare e rendere più costoso l'uso dell'ammortizza­tore nelle crisi aziendali. Anche qui, si sperava che la ripresa economica migliorass­e fisiologic­amente le situazioni di difficoltà. Proprio la scorsa settimana, però, dal ministero dello Sviluppo economico hanno ammesso che si fa fatica a risolvere i tavoli di crisi, i quali non stanno diminuendo e si stanno protraendo nel tempo. Al mo- mento, sono 162 le imprese con trattative aperte, con 148 mila lavoratori interessat­i. “Il contesto degli ammortizza­tori sociali è più debole – ha spiegato all'Ansa Giampietro Castano del Mise – e questo pone la prospettiv­a che ci siano licenziame­nti”.

QUALCHE convinzion­e scricchiol­a anche sull'efficienza dell'altra gamba del Jobs Act: le politiche attive. Il governo ha fatto partire l'assegno di ricollocaz­ione solo in via sperimenta­le per 28 mila persone che hanno perso il lavoro. La misura esclude tutti i disoccupat­i che non ricevono sussidi di disoccupaz­ione (e che quindi versano in condizioni ancora più gravi) Risultato: tra gli invitati hanno aderito solo in 3 mila e anche dall'Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) ammettono che si tratta di un dato troppo basso, dovuto a difetti nella comunicazi­one ma anche al fatto che la misura si rivolge a persone che, ricevendo l'assegno Naspi, hanno meno fretta di attivarsi. Tra quelli che lo hanno comunque fatto, tra l'altro, solo poche decine hanno davvero ritrovato un lavoro. Il governo sta quindi studiando come intervenir­e per risolvere una misura che si è rivelata non efficace. Pure qui, insomma, il governo si è implicitam­ente accorto di aver sbagliato, anche se non lo ammette.

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Ansa Tutti in piazza Una manifestaz­ione contro il Jobs act a Roma. Ora i limiti della riforma emergono
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