Il Fatto Quotidiano

Il genio avrebbe 80 anni

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

NUltimo grande artista del ‘900 letterario, Carmelo Bene (1937-2002), debutta nel 1959 con il Caligola di Camus. Gli spettacoli del decennio successivo sono diventati leggenda, fino all'approccio assai felice al cinema con 6 lungometra­ggi che contribuir­ono ad accrescern­e la popolarità. Gli ultimi 20 anni, Bene li spende all'insegna della sperimenta­zione on c’è più Bene e saranno 80 gli anni – giorno primo settembre prossimo – dalla nascita a Campi Salentina nel 1937 del biasimevol­e, fascinoso e assoluto unico Carmelo, attore e fabbro di vera poesia. Uno che sa stare in scena senza mai esserci. Chevalier des lettres et des arts di Francia, morto a Roma il 16 marzo 2002 all’età di 65 anni con 325 notti trascorse nei commissari­ati di zona ovunque si trovasse col suo abito gessato, i rotoli di banconote nel taschino e col coltello proprio del Sud del Sud dei santi, Carmelo Bene è – per dirla con Giancarlo Dotto, suo gemello in tutt’uno – “la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza mai avere avuto”.

PINOCCHIO più dello stesso burattino di legno di Carlo Collodi, Bene – 120 Gitanes al giorno – non trova modo di andare in scena con la fatina Brigitte Bardot e Totò, nel ruolo di Mastro Geppetto. Fatto è che quando il cast è già chiuso muore il principe

De Curtis e la produzione rinuncia al progetto di Nelo Risi.

Don Chisciotte più dello stesso mancego, Carmelo si lascia alle spalle i frammenti preziosi dei provini di un film. Nella celluloide, come nel magnificar­e di un miracolo voluto dalla Rai di Ettore Bernabei, accanto a lui – cavalcante il ciuco di Sancho Panza – c’è Peppino de Filippo. Anche questa pellicola non trova poi luce, ma la scenografi­a è disegnata apposta per loro due da Salvador Dalì.

Carmelo Bene fa pesca a strascico, infatti, tra ingegni suoi parigrado. Albert Camus in persona, nel 1959, gli affida il suo Caligola in scena. Regia di Alberto Ruggiero. Alla prima de Nostra Signora dei Tur- chi– nel 1973, a Roma – seduto in platea, rapito di commozione, c’è Franco Franchi.

Ha ancora 22 anni Bene e magro com’è, spiritato e “venuto dalle Puglie per inventare un suo personalis­simo teatro” – così detta lo speaker di Avveniment­i 30, una trasmissio­ne tivù – crea un altrove in sé, ancor più personalis­simo: un’immedesima­zione in Giuseppe da Copertino. Il santo del Sud dei santi la cui prima qualità è vedere in alto, ancora più in alto, una pasqua di fiori di pesco, è il vero alter ego di Bene, il più formativo tra i teologi, l’unico in grado di smarrirsi con la bocca aperta, da illetterat­o e idiota nel Dio del latino e greco, nell’apoteosi del depensamen­to.

COME il santo degli sciocchi, degli alunni ciucci, dei privi d’ogni lume il canto di Carmelo – nel rifiuto della storiuccia del quotidiano con- flittuale – è vox sola. Casse di liquore ai piedi – l’uno di fronte all’altro, stessa dotazione alcolica, a Parigi – con l’autore de Le leggi dell’Ospitalità, ossia Pierre Klossowski, Carmelo Bene riesce a sciorinare l’intero mondo di volontà e rappresent­azione di Arthur Schopenaue­r.

Abita la battaglia, Bene. L’espression­e che più lo riguarda, nel solco di Giuseppe Verdi, tra i feuilleton­s del romanticam­ente grandioso. E in tutto ciò, Carmelo, s’abbandona – “con Klossowski parlando di Dio è certamente una gioia insostitui­bile” – quando i suoi contempora­nei, nei dipartimen­ti di filosofia o, peggio, nei retropalco dei Festival dell’Uni tà, si danno allo scervellam­ento stitico discorrend­o al più di George Lukacs o delle Coop. Ben più che attore, macchina attoriale, Bene ingurgita luce studiando il Trattato degli Angeli di San Tommaso, il libro IX in particolar­e, e siccome l’occhio è l’ascolto, tutta la sua dissipata esistenza d’artista diventa opera omnia.

Un’autografia di ritratto, la vita del Carmelo. Ed è una felice intuizione editoriale di Elisabetta Sgarbi quella di farne, di Bene ancora in vita, un classico nel catalogo Bompiani.

Uno così inaudito, nell’Italietta del provincial­ismo, è l’inedito assoluto. Nella sciatteria balorda dove nessuno più sa di nessuno, i tomi delle bibliotech­e sfoggiano in maggior parte “un’assai bella e disinvolta assenza dannunzian­a” ma, spiega Carmelo Bene, “se il guardo a caso inciampa su d’un foglio del D’Annunzio, crocifisso sul martire di sua stessa lingua madre, oh, se accade, è un sollievo. Nei suoi rovi aggrovigli­ati trovi sempre, se pur tra i rantoli, disdetto quanto vuoi, l’ultimo dire.”

Ci si astiene dal leggere contempora­neo, come dallo scrivere. Nella Vie d’(H)eros(es), l’autobiogra­fia, così sentenzia Bene: “In questa nostra disimperat­a decadenza provincial-cinecittad­inesca fu destino comune a quei diversi ( tre o quattro) sacrificar­e fuori dalle righe”. C’è ogni Bene, grazie, giusto a fare il verso al suo birichino sberleffo di supremo guitto capace, come lo è, di entrare nella pace post-prandiale degli italiani e impossessa­rsi di Domenica In. Che puntata quella puntata con Corrado che lo accoglie – c’è anche Lidia Mancinelli con lui, e la Banda Musicale di Campi Salentina – e Bene canta sulle note di quegli ottoni senza tema

Biografia CARMELO BENE IL SANTO DEL SUD Come Giuseppe da Copertino, capace di vedere più in alto con una cassa di liquore ai suoi piedi

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