Fitto assolto a metà: per la Cassazione “il peculato c’era”
La sentenzaLa Suprema corte rinvia a un nuovo giudizio d’appello per i 187 mila euro delle “spese di rappresentanza” dell’ex governatore
Èvero che la Corte di Cassazione ha confermato che Raffaele Fitto merita l'assoluzione dall'accusa di corruzione aggravata nel processo che lo vedeva accusato con Gianpaolo Angelucci, a capo del gruppo Tosinvest. È altrettanto vero, però, che per l'ex ministro e presidente della Regione Puglia, oggi eurodeputato, la sentenza del presidente Domenico Carcano è un bel problema.
I pm di Bari Nicastro, Nitti e Rossi, dopo le indagini condotte con la Guardia di Finanza, mandano a processo Fitto perché avrebbe favorito il gruppo Tosinvest con una maxi-commessa sanitaria da 12 milioni in Puglia. Pm e finanzieri scoprono che Angelucci versa, di lì a poco, 500 mila euro finiti – transitando in parte attraverso l'Udc calabrese – nel movimento fondato da Fitto per la campagna elettorale del 2005, quella delle Regionali poi vinte da Nichi Vendola. Da qui, anche l'accusa di finanziamento illecito al partito. Se non bastasse, emerge che ben 187 mila euro, appartenenti al “fondo di rappresentanza del presidente della Giunta Regionale”, vengono utilizzati “per finalità private mediante l'erogazione a diversi soggetti”. L'accusa ipotizza così, per Fitto, il reato di peculato.
IN APPELLO l'accusa di corruzione cade. Quella di finanziamento illecito risulta prescritta. E il peculato? Secondo la Corte d’appello si trattava di abuso d'ufficio, anch’esso prescritto. La Procura generale di Bari, al pari di Fitto e altri imputati, ricorre in Cassazione. E la Cassazione conferma l'assoluzione dall'accusa di corruzione. In sostanza, Angelucci versò quei 500 mila euro, peraltro quando Fitto aveva ormai lasciato lo scranno di presidente, non per un accordo corruttivo ma per un mero finanziamento. Una parte, ovvero 200 mila euro, transitarono sui conti de “La Puglia prima di tutto”, attraverso un giroconto della segreteria calabrese dell'Udc. Altri 300 mila, direttamente sui conti del neonato – e ormai tramontato – movimento di Fitto. Il finanziamento fu lecito o illecito? La Cassazione sostiene che si trattò di “finanziamento illecito con riferimento alle erogazioni non ‘transitate’ attraverso l'Udc e pari a 300.000 euro”. E su questo primo punto rinvia alla Corte d'Appello che dovrà nuovamente pronunciarsi. Poco cambia, è tutto prescritto.
Ben più delicata, per Fitto, la questione dei 187 mila euro del fondo di rappresentanza. Rispetto a quest'ultima imputazione, infatti, la sentenza d'appello, scrive la Cassazione, “deve essere annullata, agli effetti penali”. La Suprema corte, infatti, ritiene che la Procura di Bari avesse ragione: “La sentenza impugnata, quindi, deve essere annullata nella parte in cui esclude la configurabilità del delitto di peculato con riferimento all'erogazione delle somme in favore di privati mediante l'utilizzo di denaro disponibile per spese di rappresentanza del Presidente della Giunta della Regione Puglia per complessivi euro 187.300,00, per nuovo giudizio sul punto. Il giudice di rinvio accerterà, alla luce dei principi precedentemente evidenziati, se le erogazioni in questione, in tutto o in parte, siano state effettuate esclusivamen- te per indebite finalità private o, invece, anche per realizzare interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l'adozione di un impegno di spesa da parte dell'ente (...). La mancanza di tali specifiche circostanze non può che rendere incontrovertibile la corretta configurazione del delitto di peculato”.
“LE SOMME”, continua la Suprema corte, “il cui impiego è stato deliberato direttamente dal Fitto, non rientrano né in astratto, né in concreto, nella categoria delle spese di rappresentanza (…)”. E ancora: “Le erogazioni sono avvenute in piena campagna elettorale e in favore di soggetti della zona di Maglie o comunque nel Salento, ossia nella zona di provenienza elettorale del Fitto e, dalle intercettazioni telefoniche effettuate, risultano essere state oggetto di ‘promesse’...”. “La gestione del denaro – si legge ancora nella sentenza – è stata effettuata per scopi privati e al di fuori delle regole di contabilità, sicché il Fitto si è posto come dominus del denaro pubblico, operando una finalizzazione privatistica della spesa”.
Un vero e proprio ceffone alla Corte d'Appello, laddove si legge: “Le affermazioni della sentenza impugnata sono intrinsecamente contraddittorie: da un lato, si dice che l'erogazione delle somme sarebbe riconducibili a fini istituzionali, e, dall'altro, si rileva che il denaro sarebbe stato corrisposto per ragioni elettorali al di fuori di interessi pubblici”. Certo, la Corte d'Appello dovrà pronunciarsi nuovamente, ma c'è un dettaglio che per Fitto non può risultare indifferente: il peculato, diversamente dall'abuso d'ufficio, non si prescriverà fino all'agosto 2018.
Il verdetto
È caduta la corruzione ma per il reato più grave la prescrizione arriverà solo nell’agosto 2018