La rimozione collettiva di B. il condannato
Secondo una delle definizioni più in voga “la rimozione in psicanalisi è un meccanismo della mente che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili o intollerabili dall’Io, la cui presenza provocherebbe vergogna”. Proprio per questo non stupisce che in questi giorni, più o meno tutti, sui giornali e in politica, facciano finta di ignorare i propositi di Silvio Berlusconi in materia di giustizia. Lui, come al solito, è piuttosto chiaro. Pubblicamente ripete che vuole separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici e soprattutto abolire la custodia cautelare in carcere. In manette, anche se arrestati in flagranza, per Berlusconi ci devono finire solo i presunti autori di crimini violenti. Per tutti gli altri, dai ladri di appartamento ai truffatori, fino ad arrivare ai corrotti e agli spacciatori, deve scattare la libertà su cauzione. È il modello americano. Che lì funziona (con molte controindicazioni) per due ragioni. La prima è che i processi si fanno in fretta. Soprattutto perché le sentenze non hanno motivazioni scritte, sono immediatamente esecutive (cioè il condannato va in prigione subito dopo il primo grado) e sono appellabili solo quando la difesa è in grado di produrre nuove prove decisive che non aveva in nessun caso potuto presentare in dibattimento. La seconda ragione è che la condanna non è mai virtuale. Se negli Usa ti danno 4 anni, salvo rare eccezioni, te li fai e basta. Non come in Italia, dove fino a 3 anni e mezzo (e più) un incensurato la cella la vede solo dipinta. Tanto da festeggiare dopo un verdetto sfavorevole perché la cosa peggiore che gli capiterà è l’affidamento in prova ai servizi sociali (esperienza che Berlusconi ha vissuto lavorando in una casa di riposo per anziani).
PER QUESTO NEGLI STATI UNITI i processi sono molto pochi. Gli imputati che capiscono di essere stati raggiunti da prove forti preferiscono sempre patteggiare la pena. Il loro ragionamento è semplice: meglio accordarmi oggi con l’accusa per una condanna immediata a due anni piuttosto che rischiare di prendermene 6 tra dieci o dodici mesi. E scontarli tutti.
Il risultato è che negli Stati Uniti ci sono più di due milioni di detenuti contro i 57 mila presenti in Italia. In gran parte poveri, ispanici o afroamericani. Un dato che la dice lunga sui difetti di quel sistema (un bambino di colore su 9 ha un genitore in carcere, spesso perché le famiglie non possono permettersi un buon avvocato), ma che però spiega bene come mai lì la libertà su cauzione funzioni.
Ciascun lettore sul punto può, ovviamente, pensarla come gli pare. Prima del voto sarebbe bello sapere però anche cosa ne pensano gli altri partiti. Per esempio, l’alleato in pectoreMatteo Salvini concorda sulla cauzione concessa anche a presunti ladri e spacciatori? E se sì, vuole lo stesso mantenere i tre gradi di giudizio e l’affidamento in prova come pretende l’ex Cavaliere? Cosa dirà, invece, il Pd se per caso dopo le urne si troverà a governare, volente o nolente, con Forza Italia? E quali riflessioni fanno i grandi giornali e i loro lettori? Un liberale come Luigi Einaudi ci ha insegnato che in democrazia bisogna “conoscere per deliberare”.
Per questo viene il sospetto che il silenzio assordante che circonda le proposte di Berlusconi abbia molto a che fare con uno psicanalitico processo di rimozione. Affrontare un dibattito del genere è complicato.
Costringe a esaminare pro e contro. A ricordare magari che l’ex Cavaliere è un condannato. Un “residuo mnestico” che a volte può persino provocare vergogna.