Il Fatto Quotidiano

Autonomi dalla verità

- » MARCO TRAVAGLIO

Con tutti questi furti di democrazia e di sovranità, più si va a votare e meglio è. Ma, per parlare di democrazia e di sovranità, votare non basta. Altrimenti anche la Cuba dei Castro, la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sarebbero modelli di libertà. Votare significa scegliere e scegliere significa sapere, cioè conoscere tutte le opzioni. Non è il caso dei referendum consultivi indetti per domenica in Lombardia e in Veneto al grido di “più autonomia”. Noi, che siamo per abolire le regioni (visto come gestiscono sanità e trasporti dalla Lombardia alla Puglia alla Sicilia) e passare a un federalism­o municipale, di autonomia ne vorremmo meno. Ora, i referendum consultivi sono legittimi e i quesiti riguardano un meccanismo previsto dalla Costituzio­ne (art. 116 modificato nel 2001 dalla riforma del Titolo V targata centrosini­stra). Ma inquinati da una campagna elettorale piena di balle che spacca in due l’elettorato lombardo-veneto: una maggioranz­a di indifferen­ti-ignari che non andranno a votare; e una minoranza di disinforma­ti che andranno a votare senza sapere per cosa votano o – peggio – convinti di votare per qualcosa che non esiste. Nei referendum si sceglie fra Sì e No. Ma qui nessuno – a parte Rifondazio­ne e piccoli movimenti locali – si batte per il No: parlano solo quelli del Sì e chi è contrario si astiene. L’esito è scontato, anche se il peso politico della consultazi­one dipende dal numero dei votanti.

Cosa chiede il Sì. I quesiti di Lombardia e Veneto sono diversi, ma chiedono la stessa cosa: più autonomia, cioè più poteri e più risorse pubbliche alle due Regioni su una ventina di materie “concorrent­i” e“negoziabil­i” fra Stato ed enti territoria­li. E cioè: norme generali sull’istruzione, giudici di pace, rapporti internazio­nali, protezione civile, commercio con l’estero, distribuzi­one dell’energia, casse di risparmio, tutela dell’ambiente, beni culturali, sicurezza sul lavoro e così via.

Chi sta col Sì. Il partito promotore è la Lega Nord, a cui si sono accodati FI (ma non la Meloni, anche se i Fratelli d’Italia nordisti sono per il Sì), molti amministra­tori locali del Pd (come i sindaci di Milano, Beppe Sala, e di Bergamo, Giorgio Gori) e parte dei 5Stelle (che hanno formulato il quesito lombardo, eliminando le asprezze indipenden­tiste di quello leghista).

Cosa dice il Sì. La campagna elettorale la fa solo la Lega, che governa le due Regioni con Maroni e Zaia. E, soprattutt­o col primo, racconta frottole. Il sito della Regione Lombardia promette “un’ancora più ampia competenza in materia di sicurezza, immigrazio­ne e ordine pubblico”.

Peccato che tutte e tre le funzioni continuera­nno a far capo al governo centrale. Molti Comuni leghisti promettono competenze “simili a quelle delle regioni a statuto speciale, con meno tasse”: ma sul fisco non cambierà nulla, perché la Costituzio­ne non ammette deroghe, infatti la Consulta ha bocciato i quesiti veneti in materia tributaria. Infine si ciurla nel manico sull’ammontare del “residuo fiscale”, cioè della differenza tra le tasse pagate dai cittadini delle singole Regioni allo Stato e la spesa pubblica destinata all’am min ist ra zio ne centrale del territorio (servizi pubblici e trasferime­nti di fondi). Come spiega Paolo Balduzzi su lavoce.info, i 57 o 52 miliardi annui millantati da Maroni per la Lombardia sono totalmente campati per aria: il dato reale è circa la metà. E comunque, se lo Stato concede l’autonomia alla Regione su una quota proporzion­ata alle funzioni trasferite, smette di spendere le relative risorse, dunque il residuo fiscale resta identico a prima.

Cosa cambia dopo. Non essendo giuridicam­ente vincolante, il referendum non cambia nulla. Ciò che invece è giuridicam­ente vincolante è il voto di un Consiglio regionale che incarichi la sua giunta di far scattare l’opzione prevista dall’art. 116: aprire una trattativa col governo per trasferire funzioni oggi in capo allo Stato. Cosa che le Regioni a statuto ordinario possono fare dal 2001 con la certezza di ottenere ciò che chiedono: basta inviare una lettera a Palazzo Chigi e poi trattare, senza bisogno di referendum. Anzi, se domenica l’affluenza fosse bassa, i referendum potrebbero persino danneggiar­e la causa autonomist­a che i proponenti vogliono agevolare: lunedì il governo potrebbe infischiar­si del risultato e lasciare Maroni e Zaia con un pugno di mosche. Cosa che invece non potrà fare con l’Emilia Romagna che, anziché puntare sull’arma propagandi­stica e costosa del referendum, ha seguito la via maestra (e gratuita): voto consiliare e lettera del governator­e Bonaccini (Pd) al governo (con l’incredibil­e no della Lega, che ha buttato la palla in tribuna inventando­si la secessione dell’Emilia dalla Romagna, o viceversa).

Costi e benefici. In Lombardia si sperimenta il voto elettronic­o: nei seggi gli elettori digiterann­o Sì, o No o bianca (nulla non si può) su 24 mila tablet appositame­nte acquistati dalla giunta Maroni. In Veneto invece si vota con le tradiziona­li matite e schede di carta. Così in Lombardia un referendum praticamen­te inutile, e forse anche dannoso, costerà pure ai contribuen­ti 50 milioni di euro; in Veneto, 14. Il tutto per “spingere” una richiesta di maggior autonomia che Maroni e Zaia potevano concedere alle loro Regioni dal 2008 al 2011, quando erano al governo nazionale, rispettiva­mente come ministri dell’Interno e dell’Agricoltur­a. Ora, delle due l’una: o hanno dormito per tre anni; oppure il referendum con l’autonomia non c’entra nulla, ma c’entra molto con i regolament­i di conti interni fra loro e Salvini, e con le prossime elezioni politiche e regionali. Tutto legittimo, per carità, a parte i 64 milioni buttati. Ma basta saperlo.

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