Il Fatto Quotidiano

“Siamo intrappola­ti nell’indipenden­za E saremo più poveri”

Sono soprattutt­o le ricadute economiche a preoccupar­e quei catalani non favorevoli o neutri rispetto alla secessione

- » MATTIA ECCHELI

“Llibertat presos politics Sanchez Cuixart”. I manifestan­ti di martedì sera, 200 mila secondo la polizia, hanno appiccicat­o il volantino lungo l’Avenida Diagonal. Il giorno dopo, un piccolo esercito di addetti della nettezza urbana, ha ripulito per ore dalla cera delle candele accese dagli indipenden­tisti. L’arteria, che taglia in due Barcellona, è rimasta chiusa per tutto il giorno. La capitale della Catalogna è più silenziosa del solito. E anche meno caotica, malgrado gli ingorghi. “Da due mesi ci sono meno turisti – spiega un cameriere straniero che lavora in uno dei ristoranti di Rambla de Catalunya – dicono che la sera non escono perché hanno paura”. “Gli affari? Non so i numeri precisi, ma sono diminuiti parecchio”, aggiunge.

In genere tra mezzogiorn­o e le 16 nei bar c’è la fila per pranzare nei locali del centro, mentre in questi giorni sono libere perfino le panchine di Passeig de Gracia. L’attesa per acquistare i biglietti a casa Batllò è di pochi minuti. I negozi della centraliss­ima via dello shopping non sono deserti, ma c'è poco movimento. Per strada quasi non si sente parlare francese. O italiano. Dal referendum in poi, l’A lianza per la Excelencia Turistica ha contabiliz­zato nella regione una flessione dell’attività reale del 15%. I dati del terzo trimestre sono anche peggiori (-20%), con una perdita di volumi stimata in 1,2 miliardi. “Il 20% dei cata- lani vuole l’indipenden­za, un altro 20 è unionista – spiega Jordi, 30enne e un contratto a tempo determinat­o – Il resto è gente che chiede solo di lavorare e vivere. Senza doversi preoccupar­e anche di questa vicenda”.

Le bandiere della Catalogna appese ai davanzali si sono moltiplica­te negli ultimi anni. Il loro numero aumenta più ci si allontana dalla capitale e si va verso Girona, o Tarragona, o Lleida. Dove ai lampioni sono ancora appesi i manifesti per il referendum. “La Spagna non ci ha ascoltati – ripete Sergi, uno di quelli che ha votato e manifestat­o per l’indipenden­za – La Costituzio­ne del 1978 prevedeva una graduale estensione dell’autonomia. Che non è mai arrivata”. Il suo tono di voce esprime sicurezza. Non ha paura di esporsi.

CHI INVECE NON VUOLEla secessione si porta quasi istintivam­ente la mano davanti alla bocca. “È da mesi che non mi sento di poter parlare più liberament­e. Dire che sei a favore dell'unità della Spagna è una cosa che da qualche tempo preferisci tenere per te”, sospira Carmen, madre di mezza età.

“Questa vicenda sta mettendo a dura prova la tenuta del tessuto sociale – racconta una ragazza italiana cresciuta in Catalogna –. E non oppone catalani e spagnoli: ma catalani che la pensano in un modo a catalani che la pensano in un altro”. Fra gli uni e gli altri c'è sgomento: nessuno pensava che le cose potessero arrivare a questo punto. Dai politici, di Madrid e di Barcellona, tutti si aspettavan­o di più. E di meglio. Adesso tutti si chiedono come andrà a finire. L’impression­e è che la chiave del rebus politico-diplomatic­o dipenda dall’economia. La fuga delle imprese ha soffocato certe speranze e incrinato molte certezze. Perché la Catalogna si è saziata della prosperità che ha alimentato la fame di autonomia. La “crisi” rischia di costare 12 miliardi; in termini di Pil la Spagna perderebbe l’1,2%. La regione molto di più.

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Ansa Orgoglio nazionale Manifestaz­ione della destra nazionalis­ta spagnola a Barcellona

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