“Ho tanti amici gay... perciò devo capire cosa c’entro con loro”
La presidente di Gherush92, associazione non profit che si occupa di diritti umani, dichiara in un’intervista che la Commedia di Dante presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e cita alcuni passi dedicati al popolo ebraico, ai sodomiti (gli omosessuali), a Maometto. Ma scrittori, critici e opinionisti la liquidano rapidamente: il capolavoro dantesco ha solo gli ovvii limiti storici di un’opera che è comunque figlia del suo tempo. Entrambi sbagliano. Dante non va espunto o perdonato: va letto e compreso.
LA COMMEDIA è interamente figlia dei pregiudizi trecenteschi – non poi tanto diversi dai nostri. Non esiste un pulsante che permetta di disattivarli e godersi il poema senza venire disturbati. Dante vuole disturbarci. E disturbarsi. Si avventa sui pregiudizi come su un banchetto. Li fa suoi, li scompone e li digerisce. A volte li supera, per esempio quando (con gli stilnovisti) rivendica la nobiltà d’animo come superiore a quella di sangue. Ma in genere non è questo che gli interessa. Piuttosto cerca di farne spazi, corpi. Incontrarli. Vuole capire in che modo lo riguardano. E in questo, sì, è esemplare. La sua fame di alterità non mira a recintare gli spazi dell’Altro (come invece fanno sia Gherush92 sia i suoi detrattori, nel proporci una Commedia depurata e igienizzata). Anzi vuole abbatterli. Penetrarli, farsene penetrare. Certo: non sempre ci riesce. Ma lo riconosce.
Il rapporto con l’Islam è ambivalente. I musulmani sono rappresentati nel poema come gente turpa, superba e selvaggia, tranne per Avicenna e Averroé. Che però stanno chiusi nel castello degli spiriti magni, non più nemici della cristianità ma membri di una comunità di eletti, una bella scola, una schiera, una filosofica famiglia, una compagnia. Ma Dante sa che l’universalismo culturale non risolve la questione. Nel limbo c’è anche il Saladino, ma appare solo, in parte. Il suo isolamento è un implicito problema, un nodo non risolto ma dichiarato.
Con gli ebrei, poi, isolare l’Altro diventa impossibile. Quando Beatrice esorta i cristiani: Uomini siate, e non pecore matte, sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!, ci senti un’intimità cruenta impen- sabile se si parlasse di musulmani. Questi non sono rivali pagani, ma parenti traditori (la colpa più grave nell’Italia dei Comuni e delle fazioni): un nemico interno. Perché il popolo ebraico è l’altra faccia dell’identità cristiana.
La Commedia è spaccata tra amore devoto per gli Ebrei del Vecchio Testamento e disprezzo per i Giudei dell’era cristiana. Nella Giudecca sono puniti i tradimenti più gravi, peggiore tra tutti quello di Giuda maciullato dal primo traditore Satana: ma una giudecca è un quartiere ebraico. Nel cuore dell’inferno c’è un ghetto – e, arrivandoci, Dante scopre di trovarsi esattamente sulla verticale di Gerusalemme. Un’allucinazione degna di Bruno Schulz. Bene e male si necessitano come il concavo e il convesso. Non è solo antigiudaismo, è il paradosso frastornante che l’i nt er o viaggio cerca di ricucire, è l’enigma di una lingua assurda, l’ebraico, forse edenica forse babelica, ugualmente urlata dai demoni e cantata dai beati: è l’illeggibilità di Dio.
Nel caso dei sodomiti, infine, il coinvolgimento con l’Altro diventa personale, ardito. Dante vuole sbattere un sodomita all’inferno? Benissimo, va a scegliere proprio il suo maestro, Brunetto Latini: nel Medioevo il rapporto gay per eccellenza era quello tra maestro e allievo. Così lo incontra. Camminano fianco a fianco, nella penombra. Si toccano. Si parlano con tenerezza. Brunetto spiega che tutti gli altri come lui sono poeti e letterati. Dante si chiede se dovrebbe scendere anche lui con Brunetto, nella pioggia di fuoco… Questo gioco di ambivalenze evoca un mondo in cui (secondo dati riferiti al Quattrocento) i due terzi dei fiorentini quarantenni erano stati arrestati almeno una volta per sodomia. Un mondo in cui omosessualità e eterosessualità non erano polarizzate come accade oggi, con quell’arroccamento identitario che tuttavia serve a ottenere diritti, ma si intrecciavano in mille viluppi di curiosità disprezzo paura amore. Vivere in quel mondo significava avere comunque “esperienze om os es s ua l i” – che fossero sessuali o meno. Significava portare in sé l’omofobia e il suo contrario, sempre.
IL CANTO DI BRUNETTO ci fa pensare per contrasto a quella dinamica dell’o mof ob ia qualificata che va per la maggiore oggi, quella di chi dice “ho tanti amici gay ma”. Ma il reato di omofobia no. Ma il matrimonio no. Ma le adozioni no. Ma non sono un omofobo. Tutto un negare diritti, ma prima ancora uno sfilarsi, un dire: questo pezzo di vita con me non c’entra. Dante è un omofobo, ma dice: “ho tanti amici gay perciò”. Perciò devo capire cosa c’entro con loro. Perciò devo lasciarmi tirare in ballo.
Non dunque un’astratta disponibilità di fronte a un’infinita varietà di teoriche vicende identitarie, ma un confronto reale con quella differenza che ci riguarda perché ci resiste e ci riscrive. Ed è folle che debba insegnarcelo uno che mette i gay all’inferno.
Discriminazione? Il maestro evoca un mondo (il Quattrocento) in cui due terzi dei fiorentini quarantenni erano stati arrestati almeno una volta per rapporti omosessuali