Da ieri la Repubblica italiana ha un inno: è sempre quello di Mameli, ma ora è ufficiale
Il Parlamento approva la legge: “Fratelli d’Italia” non è più temporaneo
Si è sempre cantato alle partite, a squarciagola. Intonato nelle occasioni ufficiali con più o meno sentimento: è l’inno nazionale. Ma ora si scopre che solo da ieri l’Inno di Mameli è quello ufficiale della Repubblica. Prima era solo “ufficioso”, anzi “provvisorio” come lo dichiarò nel 1946 il primo governo repubblicano. Di provvisorietà in provvisorietà sono passati 70 anni e siamo arrivati a ieri, quando il Senato ha approvato definitivamente la legge che lo definisce inno della Repubblica.
Goffredo Mameli aveva scritto il brano nel 1847, in pieno Risorgimento, insieme a Michele Novaro che ha gen- tilmente fornito la sinfonia. Il brano fu molto popolare durante l’epoca risorgimentale, nonostante l’inno del Regno d’Italia fosse la Marcia Reale di Casa Savoia. Il futuro inno debutta ufficialmente il 10 dicembre 1847.
Nel corso della storia, però, il dibattito sull’ufficialità del brano e sulla sua efficacia come inno nazionale non si è mai spento. Fino ad oggi. Un po’ co- me ai tempi del fascismo, quando Il canto degli Italiani (questo il titolo originale) non piaceva troppo. Mussolini, preferiva i canti fascisti, Giovinezza o l’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista.
L’inno tornò alla ribalta durante la Seconda guerra mondiale, specialmente negli ambienti antifascisti. Affiancò brani come Bella Ciao e Fischia il vento. Nel ‘ 46, come detto, si fece “inno provvisorio”. Il dibattito su “Fratelli d’Italia”, però, non è mai morto: Bettino Craxi espresse il suo gusto personale per il Va’ pen sier o di Giuseppe Verdi così come avrebbe fatto anni dopo anche il senatùr Umberto Bossi.
MAMELI, però, alla fine ce l’ha fatta: la Repubblica da ieri suona con lui non più provvisoriamente. Il Senato s’è limitato a dire sì, invece la discussione nella commissione di merito alla Camera è stata breve, ma vivace. La relatrice Daniela Gasparini (Pd) aveva un cruccio: “Richiamo l’attenzione dei colleghi deputati sul testo integrale che è in distribuzione” giacché “per prassi consolidata e secondo le indicazioni del cerimoniale diplomatico, negli eventi ufficiali vengono eseguite solo le prime due strofe di otto versi.”.
L’eroe del dibattito è Gian Luigi Gigli del gruppuscolo Democrazia Solidale, unico oppositore: “Se in questa sede fosse proposto ’ O sole mio, questo susciterebbe il mio entusiasmo”. Come dargli torto? Non solo: “Sottolineo che sono pochissimi a sapere chi sia Scipio e cosa abbia a che fare con l’Italia il suo elmo”. Per non parlare del fatto che
L’oppositore
Le perplessità musicali di Gigli (centrosinistra): “Ma non era meglio scegliere ’O sole mio?”
“cos’è la coorte rappresenta un mistero per i più”. E poi c’è la seconda strofa: “Più leggibile, ma bisognosa di sostegno psicologico per quanto segnata dalla depressione”. Insomma, “se si vuole tenere la marcetta, almeno si tolgano le parole, si suoni solo la melodia. Nel nostro Paese qualsiasi proposta alternativa ha trova- to silenzio, fastidio e tanta ironia. Mi chiedo come sia possibile che, in un caso come questo, tutti siano soddisfatti di essere rappresentati da un brano che non è neanche un capolavoro. Faccio appello al buon gusto dei deputati della Commissione e chiedo di non oltraggiare ulteriormente la bellezza”. Il montiano Andrea Mazziotti di Celso non trattiene lo sdegno: “Faccio notare che l’intervento di Gigli ha descritto il Risorgimento come un’operazione mazziniano-massonica e ha dimostrato sulla Prima guerra mondiale, definita ‘inutile spargimento di sangue’, una sorta di nostalgia per la Triplice alleanza. Questo a dimostrazione dell’influenza di un’impostazione veterocattolica e anti-nazionale contraria anche alla breccia di Porta Pia”.
RESTA INEVASA u n’u l ti m a perplessità del buon Gigli: “Alla domanda retorica Dov’è la Vittoria?, qualcuno, soprattutto nell’Italia del nord, dove davanti ai nomi di persona si usa mettere l’articolo, potrebbe essere tentato di rispondere che è uscita senza lasciar detto nulla”.