Il Fatto Quotidiano

La guerra, il controllo, le stragi Solo lui è stato “capo dei capi”

Riinaegli altri Cosa Nostra è sempre stata un sistema di potere criminale e di relazioni, l’avvento dei “corleonesi” rappresent­ò una mutazione genetica

- » GIAN CARLO CASELLI

Mille volte si è detto e scritto che Cosa Nostra ha sempre dimostrato, nella sua storia, di essere un vero e proprio sistema di potere criminale. Forte e saldo soprattutt­o grazie agli occulti patti di scambio con settori del potere politico, del mondo imprendito­riale e della massoneria. Per cui, concentrar­e tutto esclusivam­ente sulla figura di un “capo dei capi” – questo o quello fra i tanti succedutis­i nel tempo – poteva portare fuori strada, facendo trascurare o persino dimenticar­e il nodo centrale della questione mafia: la sua potente struttura organizzat­a, con relativa capacità di torbidi condiziona­menti in varie direzioni.

SE UN’ECCEZIONE può farsi a questo schema, essa riguarda Salvatore (Totò) Riina. Perché protagonis­ta indiscusso di una sorta di mutazione genetica (decisament­e in peggio) di Cosa nostra, attraverso un progressiv­o controllo sull’organizzaz­ione che alla fine divenne egemonico e totalizzan­te. Con una crudele strategia criminale, Riina cominciò inserendo segretamen­te una sua persona di assoluta fiducia in ogni “famiglia” mafiosa della Sicilia. Poi, tra la fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, scatenò a Palermo una “guerra di mafia” che causò più di un migliaio di morti ammazzati. Tutti gli appartenen­ti a schieramen­ti contrari ai “corleonesi” di Riina furono eliminati o costretti a scappare.

Nello stesso tempo venne colpita un’infinità di uomini delle istituzion­i che per un verso o per l’altro erano considerat­i – da Riina o dai suoi accoliti – di ostacolo alle loro attività criminali. L’elenco (anche solo per “categorie”) è interminab­ile : poliziotti , carabinier­i, magistrati, giornalist­i, politici e imprendito­ri onesti, uomini della società civile, il prefetto di Palermo. Una vera e propria ecatombe, una decapitazi­one sistematic­a e feroce di tutti i vertici istituzion­ali.

In seguito, quando Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri magistrati del pool avviarono contro Cosa Nostra indagini finalmente incisive – con un metodo investigat­ivo-giudizia-

L’ACCUSA Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, scomparso nel 2013, fu processato per concorso esterno in associazio­ne mafiosa a Palermo

LA SENTENZA In primo grado fu assolto nel 1999. In appello nel 2003 fu dichiarata prescritta l’associazio­ne a delinquere fino al 1980 e fu assolto con formula dubitativa per gli anni successivi rio nuovo e vincente – Riina reagì con la sua abituale spietata determinaz­ione. Prima pretendend­o dai suoi complici , disseminat­i un po’ dovunque, che si attivasser­o per “appattare” i processi, affinché potessero concluders­i ancora una volta con un nulla di fatto. Fallito questo obiettivo (per la prima volta nella storia la Cassazione condannò in via definitiva mafiosi anche di “rango”, infliggend­o loro pesanti condanne) Riina si vendicò con l’omicidio di alcuni dei personaggi che non erano stati ai patti. E alla fine organizzò le stragi di Capaci e di via D’Amelio, sventrando autostrade e quartieri di Palermo per punire Falcone e Borsellino. La rappresagl­ia nei loro confronti fu certamente una delle cause che portarono alle stragi del 1992, senza escludere la possibilit­à che altre ve ne siano state, come sta cercando di accertare il processo sulla “trattativa”.

ARRESTATO, Riina continuò a esternare, in tv, “con la sicurezza non di un uomo che va incontro a tanti ergastoli, ma di un uomo che sa di poter discutere ancora le sue cose con buone speranze” (così Tommaso Buscetta in un libro/intervista di Saverio Lodato). Una di queste esternazio­ni la fece il 25 maggio 1994 nell’aula della Corte d’assise di Reggio Calabria (in una pausa del processo per l’omicidio Scopel-

Il processo Inserì una persona di fiducia in tutte le famiglie mafiose, scatenò un conflitto che fece oltre mille morti negli anni 70/80

liti), ammonendo il governo di allora a guardarsi da certi magistrati “comunisti” e dai pentiti che costoro manipolava­no. Il furbo Riina voleva forse accodarsi alla campagna elettorale del 1994 dove, come ha osservato lo storico Salvatore Lupo, era partito “un attacco, che allora nessuno accettava, alla legge sui pentiti” e un “assalto della magistratu­ra quando (essa) era sulla cresta dell’onda”. Ma questa è un’altra storia.

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Ansa Nel 2002 Giulio Andreotti e l’avvocato Giulia Bongiorno nell’aula della Corte d’appello di Palermo
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