La Rai funziona quando torna a raccontare Renzo Arbore
Tutti gli artisti sono unici, ma Renzo Arbore è più unico degli altri: parafrasando Orwell, Giorgio Verdelli ha introdotto il suo bel ritratto del principe degli autori ( Unici, Rai2, mercoledì sera). Per due ore la Rai è uscita dal sepolcro come Lazzaro; un miraggio tessuto dai ricordi di Fiorello, Gigi Proietti, Ugo Porcelli e dagli spezzoni dei programmi che hanno fatto la storia della Tv italiana (a proposito: dove è finita la celebrazione del trentennale di Indietro tutta, annunciata per dicembre?).
Si è visto come Arbore sia stato unico in tutto: nel non voler ripetere i suoi programmi (casomai erano gli altri a saccheggiarli); nel lanciare talenti sconosciuti nel Paese dove piove sempre sul bagnato; nel non avere mai abbandonato la Rai, a costo di sperimentare il contrario. Unico è stato il filo conduttore della sua arte, giustamente sottolineato da Verdelli: la musica. Vale a dire, gusto dell’improvvisazione, jam session della parola nata in radio con Alto gradimento, la clownerie del jazz contaminata con il colore mediterraneo e il gusto per l’opera buffa. Poi c’è il rapporto con il pubblico, la cosa più unica di tutte. Nelle trasmissioni di Arbore il pubblico è completamente diverso dagli altri pubblici televisivi, immobili e plaudenti a comando. È un pubblico che ride, balla, canta. È a casa sua. E quando lo rivedi dopo trent’anni, continua a divertirsi ancora oggi. Nessuno come Arbore ha capito che la buona Tv si fa catturando il presente: come la musica.