Sciopero Amazon, i nostalgici di Bava Beccaris
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon proprio in occasione (ohibò) del sacro Black Friday illumina l’involuzione della discussione pubblica sulle condizioni del lavoro e della società. Fatevi un giro sui social network. Su Twitter un noto giornalista si è così congratulato sui dipendenti di Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo: “Andrebbero fucilati”. C’è da stropicciarsi gli occhi. Cinq ua n t ’ anni fa Paolo Pietrangeli iniziava la sua celebre canzone Contessa con questa descrizione sarcastica della reazione antioperaia: “Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati”. Cinquant’anni dopo raffinati intellettuali e lavoratori mal pagati parlano nello stesso modo, convinti di essere saggi. La più ridicola è che lo sciopero è una pessima pubblicità che scoraggerà gli investimenti stranieri. Gli stessi che piagnucolano sul fatto che in Italia si sciopera troppo pensano che Amazon abbia investito in Italia perché non si scioperava? Chi pensa di saper stare al mondo accusa gli scioperanti di Amazon di avere morso la mano che li nutre: “Meglio un lavoro di merda che niente”. Giusto: meglio 800 euro al mese che niente. E gli sfruttati quando avranno diritto di protestare? A 500 euro, a 300, a 150? Ci facciano sapere.
PRIMA CHE LO SPROFONDAMENTOverso il baratro della miseria diventi irreversibile sarebbe opportuno chiarirsi qualche semplice idea. La prima è che Amazon è una società privata i cui lavoratori non hanno altra tutela reale oltre al loro coraggio. Il conflitto che si esprime nello sciopero è una purissima manifestazione della società di mercato, a maggior ragione se la partecipazione è stata, come sostiene l’azienda, minoritaria: rischiano sulla loro pelle, meritano ammirazione e non dileggio. Il fatto che lo sciopero sia stato organizzato dai sindacati confederali è una buona notizia: per una volta si sono ricordati che la loro funzione non è andare a fare riunioni a Palazzo Chigi. Ha commentato Michele Tiraboschi, allievo e successore di Marco Biagi: “Mi piacciono le relazioni industriali (più della legge) perché sono l’arte del giusto equilibrio. Quando un equilibrio (possibile e sostenibile) manca il banco salta”. Il realismo è questo, non ammonire gli sfruttati a rinunciare sempre alla propria dignità.
C’è un secondo concetto da richiamare. Sappiamo da circa 150 anni che la strada del capitalismo non si percorre asfaltando i lavoratori, cioè i consumatori. Non solo perché è una cosa moralmente insopportabile (per molti ma non per tutti), ma perché non funziona. Nel 1900 il papa Leone XIII dedicò l’enciclica Rerum Novarum proprio a questo dramma: se i padroni non imparavano a rispettare i lavoratori il socialismo (Dio ne guardi) avrebbe trionfato anche sui cannoni di Bava Beccaris . Nell’enciclica si trovano espressioni che neppure la sinistra più radicale ha più il coraggio di usare: “È chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. (...) Un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile”. La questione salariale è centrale per gli equilibri dell’economia europea e italiana in particolare. Ma incredibilmente chi la evoca sistematicamente non sono i sindacati, né i partiti della sinistra (intenti più che altro a interrogarsi sulle contorsioni di Giuliano Pisapia) bensì il presidente della Bce Mario Draghi: “Sui salari ancora non ci siamo”, ha detto. Che roba contessa, nell’ufficio di Mario.
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