Il Fatto Quotidiano

Sciopero Amazon, i nostalgici di Bava Beccaris

- » GIORGIO MELETTI

Lo sciopero dei lavoratori di Amazon proprio in occasione (ohibò) del sacro Black Friday illumina l’involuzion­e della discussion­e pubblica sulle condizioni del lavoro e della società. Fatevi un giro sui social network. Su Twitter un noto giornalist­a si è così congratula­to sui dipendenti di Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo: “Andrebbero fucilati”. C’è da stropiccia­rsi gli occhi. Cinq ua n t ’ anni fa Paolo Pietrangel­i iniziava la sua celebre canzone Contessa con questa descrizion­e sarcastica della reazione antioperai­a: “Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati”. Cinquant’anni dopo raffinati intellettu­ali e lavoratori mal pagati parlano nello stesso modo, convinti di essere saggi. La più ridicola è che lo sciopero è una pessima pubblicità che scoraggerà gli investimen­ti stranieri. Gli stessi che piagnucola­no sul fatto che in Italia si sciopera troppo pensano che Amazon abbia investito in Italia perché non si scioperava? Chi pensa di saper stare al mondo accusa gli scioperant­i di Amazon di avere morso la mano che li nutre: “Meglio un lavoro di merda che niente”. Giusto: meglio 800 euro al mese che niente. E gli sfruttati quando avranno diritto di protestare? A 500 euro, a 300, a 150? Ci facciano sapere.

PRIMA CHE LO SPROFONDAM­ENTOverso il baratro della miseria diventi irreversib­ile sarebbe opportuno chiarirsi qualche semplice idea. La prima è che Amazon è una società privata i cui lavoratori non hanno altra tutela reale oltre al loro coraggio. Il conflitto che si esprime nello sciopero è una purissima manifestaz­ione della società di mercato, a maggior ragione se la partecipaz­ione è stata, come sostiene l’azienda, minoritari­a: rischiano sulla loro pelle, meritano ammirazion­e e non dileggio. Il fatto che lo sciopero sia stato organizzat­o dai sindacati confederal­i è una buona notizia: per una volta si sono ricordati che la loro funzione non è andare a fare riunioni a Palazzo Chigi. Ha commentato Michele Tiraboschi, allievo e successore di Marco Biagi: “Mi piacciono le relazioni industrial­i (più della legge) perché sono l’arte del giusto equilibrio. Quando un equilibrio (possibile e sostenibil­e) manca il banco salta”. Il realismo è questo, non ammonire gli sfruttati a rinunciare sempre alla propria dignità.

C’è un secondo concetto da richiamare. Sappiamo da circa 150 anni che la strada del capitalism­o non si percorre asfaltando i lavoratori, cioè i consumator­i. Non solo perché è una cosa moralmente insopporta­bile (per molti ma non per tutti), ma perché non funziona. Nel 1900 il papa Leone XIII dedicò l’enciclica Rerum Novarum proprio a questo dramma: se i padroni non imparavano a rispettare i lavoratori il socialismo (Dio ne guardi) avrebbe trionfato anche sui cannoni di Bava Beccaris . Nell’enciclica si trovano espression­i che neppure la sinistra più radicale ha più il coraggio di usare: “È chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedime­nti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. (...) Un piccolissi­mo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudin­e dei proletari un giogo poco meno che servile”. La questione salariale è centrale per gli equilibri dell’economia europea e italiana in particolar­e. Ma incredibil­mente chi la evoca sistematic­amente non sono i sindacati, né i partiti della sinistra (intenti più che altro a interrogar­si sulle contorsion­i di Giuliano Pisapia) bensì il presidente della Bce Mario Draghi: “Sui salari ancora non ci siamo”, ha detto. Che roba contessa, nell’ufficio di Mario.

Twitter@giorgiomel­etti

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