L’euro paga colpe non sue Il problema sono i politici
LMartin Sandbu è editorialista del Financial Times dal 2009, cura la newsletter quotidiana Free Lunch. Ha fatto ricerca e insegnato ad Harvard e Columbia. Pubblichiamo la prefazione all’edizione italiana del suo libro “La moneta rinnegata” (Luiss University Press) e politiche messe in campo contro la crisi nell’U nio ne monetaria europea, spesso con effetti disastrosamente controproducenti, si basavano su una premessa che è scorretta ma non viene messa quasi mai in discussione: che la moneta unica possa essere tenuta insieme unicamente da un sistema di trasferimenti finanziari tra i contribuenti dei diversi Paesi membri. E che un’unione monetaria sia sostenibile solo se si accompagna a un’unione fiscale ed è governata da un’unione politica. Quell’idea unisce gli amici dell’euro e i suoi nemici nel criticismo verso la moneta unica. L’euro è stato abbandonato dai suoi stessi genitori. E questo vale in modo particolare per l’Italia.
L’ITALIA INCARNA le contraddizioni e le delusioni dell’euro. Benché membro fondatore dell’Unione europea e terza economia dell’eurozona, si è ritrovata alla “periferia” durante la crisi del debito sovrano. Le banche sono zavorrate dai debiti dello Stato e lo Stato è zavorrato dai debiti delle sue banche. E nel divario che continua a separare i tenori di vita tra le sue regioni settentrionali e le sue regioni meridionali, l’Italia rispecchia la promessa, non mantenuta dall’euro, di garantire la prosperità a tutti i cittadini d’Europa – quelli che vivono nei Paesi più poveri della periferia e quelli del ricco “cuore” del continente. È naturale, perciò, che l’Italia faccia registrare il minor apprezzamento nei confronti dell’euro tra tutti gli stati membri d e ll ’ eurozona. Ma naturale non vuol dire giustificato. Gli europei hanno attribuito all’euro dei problemi che non ha causato.
L’idea che un’unione monetaria non accompagnata da unione fiscale sia strutturalmente difettosa, e che questo limite vada emendato per consentire all’euro di sopravvivere e ai suoi membri più deboli di prosperare, è un errore intellettuale. Sembra vero solo perché abbiamo dato troppo spesso per scontato il fatto che i debiti si debbano ripagare puntualmente e in toto. Non è così. C’è sempre l’alternativa di cancellare parzialmente o ristrutturare i debiti non più rimborsabili, dello Stato o delle banche. Ma nel 2010, quando è scoppiata la crisi europea del debito sovrano, quell’idea era ancora tabù.
Il tabù non lasciava alternative ai policymaker, o almeno così pensavano, se non quella di fornire enormi prestiti di emergenza ai governi dell’eurozona abbandonati dai mer- cati. Di lì, tutte le conseguenze inevitabili della scelta di mettere i Paesi europei l’uno contro l’altro in una relazione avvelenata tra debitori e creditori: risentimento tra i destinatari dei “salvataggi”, esigenza politica per i creditori di dettare il comportamento dei debitori e, fatalmente, politiche destinate a uccidere la crescita che erano controproducenti Poi ci sono un’amministrazione pubblica inefficiente e un sistema tributario mal progettato, che hanno contribuito a frenare la crescita delle imprese.
Dal 2015, l’economia italiana ha mostrato segni di miglioramento. Il merito va in parte alla solida ripresa economica che si registra in tutto il continente e in parte alle azioni degli ultimi governi italiani, che meritano un elogio per l’impegno a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e della giustizia. Ma il sistema bancario italiano resta la quintessenza di uno dei più grossi problemi economici dell’Europa. L’esposizione delle banche al debito pubblico le tiene, insieme all’economia nel suo complesso, alla mercé delle condizioni in cui versano le finanze pubbliche. Lo Stato, a sua volta, fa affidamento sulle banche (e sui loro clienti) per finanziarsi. Ma nella percezione dei leader le banche fanno parte del sistema di governo del Paese anche per l’intreccio tra élite politiche ed élite bancarie.
L’EUROPA HA IMPARATO la lezione. Le regole sul “bail-in” dovrebbero impedire ai governi nazionali di puntellare banche che andrebbero ristrutturate e ridimensionate. Ma salvando una banca dopo l’altra, il governo di Roma ha perpetuato la vecchia abitudine: invece di rafforzare le banche obbligando gli investitori a farsi carico delle perdite derivanti dai crediti insoluti, è intervenuto direttamente o ha cercato di coinvolgere altre banche. L’unica ragione per temere il bail-in è la presenza di vittime innocenti: piccoli risparmiatori che si sono fidati delle banche locali e hanno investito i risparmi di una vita nel loro capitale. Ma queste vittime andrebbero indennizzate direttamente, non aiutate indirettamente salvando le istituzioni che hanno abusato della loro fiducia. Dimostrare che i responsabili dei fallimenti non possono più nascondersi dietro scudi umani è l’unico modo per far funzionare correttamente l’economia. Vale per il sistema bancario e per tutta l’economia italiana.
* editorialista del Financial Times, collabora col research
magazine LUISS Open
Il caso esemplare
La produttività dell’Italia ha smesso di crescere a inizio anni 90, con ancora la lira