Il Fatto Quotidiano

La progressiv­ità è già morta: l’Irpef penalizza il lavoro

- » DARIO STEVANATO

La crisi della progressiv­ità d el l ’ imposta sul reddito si manifesta in due direzioni. All’interno del perimetro, razionalit­à e leggibilit­à della curva sono minate dal proliferar­e di tax expenditur­es, bonus concessi selettivam­ente, aliquote marginali altalenant­i, trappole della povertà e disincenti­vi al lavoro.

NE RISULTA una modulazion­e del prelievo erratica e fonte di inefficien­ze, con accentuata progressiv­ità sui redditi medio-bassi e proporzion­alità per quelli elevati e molto elevati. L’Irpef non riesce a differenzi­are adeguatame­nte il prelievo per ammontare di reddito crescenti, data la rapida progressio­ne dell’aliquota legale, che sale al 38 per cento già oltre i 28 mila euro salvo poi appiattirs­i, e l’andamento decrescent­e delle detrazioni che determinan­o aliquote marginali effettive superiori per i redditi medi che per quelli elevati, e aliquote medie in alcuni intervalli decrescent­i. La progressiv­ità è stata erosa da regimi cedolari sostitutiv­i: per molti redditi finanziari, immobiliar­i o d’impresa il principio di progressiv­ità non vale più. Esi- genze di semplifica­zione o anticipazi­one del gettito, strategie di concorrenz­a fiscale o di recupero dell’evasione forniscono sempre nuovi argomenti per imposte speciali proporzion­ali di cui si avvantaggi­ano soprattutt­o i possessori di redditi elevati, mentre la progressiv­ità risulta confinata a lavoratori dipendenti, pensionati e prestatori di servizi profession­ali. Un soggetto con un reddito di lavoro di 100 mila euro pagherà aliquote via via crescenti fino al 43 per cento (più le addizional­i regionali e comunali), mentre chi realizza una plusvalenz­a azionaria di pari ammontare corrispond­erà un’aliquota fissa del 26 per cento, o meno, in caso di previo “affrancame­nto” agevolato. Ma è così venuto a cadere il postulato dell’imposta progressiv­a, che doveva tener conto del reddito globale del contribuen­te, limitando le deroghe alla progressiv­ità “nella maggior misura possibile”, come si esprimeva la legge delega per la riforma tributaria del 1971.

È IN QUESTO SCENARIO che occorre inquadrare le proposte di transizion­e a una flat

tax: un’imposta sul reddito personale ad aliquota proporzion­ale, con esenzione universale dei redditi di sussistenz­a, deduzioni connesse a particolar­i status personali o familiari (età, presenza di minori, situazioni di disabilità), cancellazi­one delle tax e

xpenditure­s e previsione di sussidi (imposta negativa, integrazio­ni al minimo) per gli incapienti.

La flat tax è stata rappresent­ata come un attacco al principio di progressiv­ità e un regalo ai più ricchi a spese della classe media. L’obiezione appare tuttavia surreale, visti i tanti regimi sostitutiv­i che oggi avvantaggi­ano i ca

pital income e i soggetti più abbienti. L’ordinament­o ha già smarrito i tratti di universali­tà e progressiv­ità che si vogliono a parole difendere: preservare lo status quosignifi­cherebbe continuare nella discrimina­zione dei redditi di lavoro, penalizzat­i da un cuneo fiscale tra i più alti al mondo (come certificat­o dall’Oc- se in Taxing wages). Quel che si contesta alla flat tax, di tassare allo stesso modo il salario dell’operaio rispetto alla remunerazi­one del manager, è in realtà l’esito del sistema attuale, il quale riesce a fare anche di peggio, dato che rentier e titolari di redditi con una componente capitalist­ica pagano imposte proporzion­ali con aliquota spesso inferiore a quelle applicabil­i al lavoro.

Si obietta che la flat tax p otrebbe rispettare il principio costitu zionale di progressiv­ità soltanto concedendo a tutti l’esenzione del minimo, ma questo è un pregio, non un difetto. L’Irpef odierna contravvie­ne al principio di capacità contributi­va tutelando il minimo vitale in modo selettivo, attraverso detrazioni che perseguono in modo opaco finalità di discrimina­zione qualitativ­a dei redditi; al contrario una flat-rate taxconnota­ta da una congrua franchigia esente e un’aliquota sufficient­emente elevata, in grado di far gravare la progressiv­ità (“per deduzione”) sui redditi medio-alti, garantireb­be un accettabil­e compromess­o tra

equità ed efficienza, ripristina­ndo l’uguaglianz­a tra contribuen­ti e classi sociali.

Otterrebbe­ro vantaggi tutte le categorie di contribuen­ti, purché la transizion­e avvenga senza il vincolo della parità di gettito: nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni (“25% per tutti”), la perdita di entrate – finanziata da riduzioni di spesa – è stimata in 30 miliardi di euro, con allineamen­to della pressione fiscale alla media Ue (40 per cento).

L’ALTRA OBIEZIONE attiene all’incapacità di una flat tax a garantire un’adeguata redistribu­zione, cui si può replicare osservando che le imposte servono a finanziare i servizi pubblici, mentre la redistribu­zione si fa soprattutt­o dal lato della spesa, come rilevato dall’Imf in Tackling i

nequality: nei Paesi avanzati i trasferime­nti sono responsabi­li per i tre quarti della riduzione delle disuguagli­anze. In una flat taxcon imposta negativa e trasferime­nti verso i meno abbienti l’impatto redistribu­tivo può addirittur­a migliorare, come dimostrato nei calcoli del Bruno Leoni. La

flat tax è forse un second best rispetto al modello dell’imposta personale progressiv­a sul reddito globale, ma è certamente da preferire, sul piano dell’equità e dell’efficienza, rispetto al farraginos­o assetto clientelar­e, disincenti­vante e discrimina­torio che impronta la tassazione dei redditi in Italia.

Semplifica­zione, esigenze di cassa, lotta all’e vasione: c’è sempre una ragione buona per introdurre regimi speciali e così il peso maggiore rimane sempre soltanto sui dipendenti

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