Altro che caos migranti: social e islam sul Web, le sfide per l’intelligence
Per la sua collocazione geografica l’Italia è chiamata a svolgere un ruolo di perno nel bacino del Mediterraneo, cuore pulsante delle sfide del XXI secolo. Si pensi alla minaccia del terrorismo jihadista, alle sempre più consistenti ondate migratorie. Parlare di Mediterraneo oggi, vuol dire confrontarsi con la natura locale di una crisi che propaga i suoi effetti ben oltre l’area geografica interessata. La comunità internazionale non può permettersi il lusso di ignorare crisi di sicurezza, quand’anche localizzate e periferiche. Una sfida che delinea pesanti responsabilità anche per l’intelligence.
QUEST’ANNOil Sistema di informazione per la sicurezza della repubblica (Sisr) raggiunge il decimo anniversario dell’architettura di riforma della comunità intelligence nazionale, varata nel 2007 con la legge 124. Il quadro di riferimento è cambiato molto rispetto all’ormai remoto ordine bipolare, e gli attori non statuali sono assurti al rango di protagonisti dello scenario della minaccia. Quando guardiamo ai bacini di radicalizzazione, le periferie di alcune megalopoli europee, abbiamo la sensazione di misurarci con un indistinto amalgama di emarginazioni e nichilismi e di “islamizzazione della radicalità” (come l’ha definita Olivier Roy), nel quale bisogna saper distinguere in tempo utile gli elementi di pericolo reale, pochi e minoritari ma virtualmente esiziali. La rete e i social network, terreno di elezione anche delle compagini terroristiche per reclutamento e propaganda, hanno complicato il quadro. Non è facile distinguere fra segnali di pericolo effettivo e indizi fuorvianti.
IL DOMINIO cibernetico e le minacce al Sistema- Paese indicano che l’intelligence deve essere sottoposta a un processo continuo di aggiornamento e spesso di cambiamento. La scienza dei Big Data consente di formulare predizioni di lungo periodo un tempo impensabili. Ma il fattore umano rimane essenziale: solo l’uomo può orientare strumenti di alto contenuto tecnologico, adoperati tanto per la Techint, che contraddistingue l’intelligence militare, quanto per la Sigint, le atti- vità di intercettazione e di analisi dei segnali. Solo l’uomo può districarsi, anche facendo Osint, analisi delle fonti aperte nel web, in quel mare indifferenziato dove i segnali di pericolo possono sfuggire anche allo screening più occhiuto. E non può esservi buona raccolta informativa se non vi è una buona “Humint”, la raccolta di informazioni per mezzo dei contatti interpersonali, l’attività tipica dell’operativo di intelligence.
Anche sul tema del Mediterraneo, l’intelligence ha voluto attribuire un ruolo importante agli studiosi più preparati del nostro Paese. Purtroppo il nostro mare continua a presentarsi come una linea di frattura sulla quale paiono scaricarsi tutte le criticità e tutti i dilemmi del pianeta. Da qui a un quindicennio, la domanda di cibo crescerà del 35%, quella di acqua del 40% e quella di energia del 50%. Mentre saranno Cina e India a salire assieme al 50% nella percentuale mondiale dei consumi della classe media, America del Nord ed Europa avranno solo l’11 per cento della popolazione mondiale.
Tutto questo dimostra quanto sia miope derubricare il fenomeno migratorio a mera emergenza securitaria. Ma c’è anche un altro motivo che fa del Mediterraneo l’architrave degli indirizzi politici che siamo chiamati a esprimere: la centralità rinnovata della religione. Là dove il progetto nasseriano del nazionalismo panarabo è andato eclissandosi, si è schiuso l’orizzonte dell’alternativa religiosa. Frutto avvelenato di questo sviluppo è stato la trasformazione dell’islam in terreno di scontro ideologico per la conquista del potere e l’utilizzo strumentale della religione a opera delle compagini terroristiche. Gravano quindi sulle democrazie occidentali due imperativi. Il primo è quello di ricordare sempre che i musulmani sono le prime vittime del terrorismo jihadista. Il secondo è quello di interrogarci sulla possibilità di negoziare, e fino a che punto, i principi fondanti del mondo occidentale e delle nostre democrazie. Grazie a internet, il semplice fedele può accedere direttamente all’i m me ns o corpus di hadith che compongono la sunna.
CHE FARE, DUNQUE, se un numero sempre più corposo di fedeli, comprese ampie fasce di immigrati di seconda e terza generazione, si riconosceranno anche in quegli hadith che legittimano l’uso della violenza? Rischiamo di trovarci di fronte alla necessità di rinunciare al principio dell’integrazione e del dialogo fra religioni pur di non sfigurare il volto delle nostre democrazie? O è invece possibile conciliare i due principi? Come? È un tema arduo, ma non può più essere messo sotto il tappeto.
*direttore del Dipartimento
delle informazioni per la sicurezza (Dis) che coordina
l’intelligence