Tanti insulti, siamo antichi
Tutte le parolacce greche e latine
Il
“cat oni are” di Catone il censore è propriamente un borbottare. È il mugugnare del malmostoso mentre l’insultare è atto compiuto. Dire cornuto all’arbitro, gufo al gufo e trash a Barbara D’Urso è canone. Ed è il codice di vera vita per- ché impone – a chi vi si adopera – una sorta di altruismo capovolto. Ed è tutta sapienza quel “dire le parolacce in greco e in latino”. Per come suggerisce la preziosa antologia de Il Melangolo – Come insultavano gli antichi
– l’offendere, lo schernire e il denigrare urge di fantasia.
Aristofane, Omero, Eraclito, Orazio e persino Catullo e Cicerone: parolacce in greco e latino
Il “catoniare” di Catone il censore è propriamente un borbottare. È il mugugnare del malmostoso mentre l’insultare è atto compiuto. Dire cornuto all’arbitro, gufo al gufo e trash a Barbara D’Urso è canone. Ed è il codice di vera vita perché impone – a chi vi si adopera – una sorta di altruismo capovolto. Ed è tutta sapienza quel “dire le parolacce in greco e in latino”. Per come suggerisce la preziosa antologia de Il Melangolo – Come insultavano gli antichi – l’offendere, lo schernire e il denigrare urge di fantasia.
L’INGIURIA SI NUTREdi violenza. In dosi omeopatiche, va da sé. Ragion per cui l’insulto – fosse pure in esasperazione di turpiloquio – diventa il disinnesco più efficace delle cosiddette vie di fatto. “Bottana socialdemocratica!” – per come inveiva Mimì Metallurgico – era, per l’operaismo militante, l’antidoto contro ogni tentazione brigatista. Senza dimenticare la “bottana industriale”. Forte più di un trattato di sociologia.
Ce ne sono per tutti – e per tutti i gusti, dunque, – di insulti e di contumelie: li anonimi o i firmati, quelli indirizzati al destinatario – indifferentemente maschio e femmina – e quelli sordidi e volgari, rozzi e truci recuperati dalla letteratura greca a quella latina. Spesso a sfondo sessuale, infischiandosene di quello che per i moderni è il sacro confine del politicamente corretto, anche i più famosi non hanno rinunciato a insultare il loro prossimo. Così Aristofane strilla; Cicerone inveisce contro Catilina e i suoi turpi complici; Plauto e Orazio, e perfino Omero che dimentica “Aurora dita rosate”, adottano il linguaggio da bettola per salire e scendere tutti i gradini della trivialità. L’insulto è trasversale. Si brinda per la morte dell’avversario, o se ne augura il rapido trapasso, s’inveisce contro i corruttori e gli adulatori, ci si scaglia contro gli avidi e gli arroganti.
C’è la contumelia con intento moralistico e di denuncia, c’è il risentimento per- sonale, il rancore del vinto, il gusto del motteggio, il sarcasmo feroce, la denuncia dell’oltraggio subito, la rivincita del perdente. Se ne deduce un florilegio degli umori più biliosi ma autentici, spontanei e non trattenuti: anime fetide, cloache e cagne da cui nessuna cagna vuol prendersi perfino il pane.
PAROLE NUDE, le ingiurie, veleggiano di bocca in bocca – tra sibilo e urlo – oltre il velo dell’ipocrisia e l’occhio basso del benpensante. Qui tutto è verbalmente possibile e chiaro è l’obiettivo: ferire il destinatario. Questo librino – da raccomandare in contrappasso con la falsa benevolenza delle festività – restituisce la faccia nascosta di un mondo. È quello dei nostri antenati, soprattutto nell’accezione greca di armonia, bellezza e compostezza: il modello archetipo platonico.
Quello stesso Platone che, non a caso, rifuggiva la commedia condannandone gli eccessi – ritenuti diseducativi proprio perché vellicavano gli istinti più animaleschi dell’uomo – ma che in questo piccolo scrigno di improperi, che va a concludersi con un elenco alfabetico degli insulti in greco e latino, con rigoroso testo a fronte, avrebbe senz’altro apprezzato l’insulto degli insulti: babbaluci , ovvero, lumaca. In una sola parola si dice tutto: cornuto, bavoso e strisciante facchino!