Il Fatto Quotidiano

PIAZZA FONTANA, 48 ANNI DOPO LA VERITÀ LA SAPPIAMO

- » GUIDO SALVINI*

Le indagini milanesi degli anni Novanta sulla strage di Piazza Fontana non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzion­e hanno una “virtù segreta” e cioè scrivono esplicitam­ente cose chiare. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio e partecipe alla fase organizzat­iva della strage e alla preparazio­ne dell’esplosivo, e infatti la sua sentenza di estinzione del delitto per prescrizio­ne pronunciat­a in primo grado in ragione della sua collaboraz­ione non è stata più toccata dalle sentenze successive. Scrivono che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicurament­e riferibile alle cellule di Ordine nuovo del Veneto e che nei confronti di Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolez­za, non essendo essi più giudicabil­i perché assolti per insufficie­nza di prove nei processi precedenti.

QUINDIOrdi­ne nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana così come degli attentati che l’hanno preceduta, quelli iniziati in progressio­ne dall’a pri le 1969, per i quali i suoi esponenti sono già stati condannati con le sentenze di Catanzaro e di Bari. È questa la base minima, almeno sul piano storico, su cui discutere. Se vi siano altre responsabi­lità concorrent­i, in alto o in basso, per ora non lo sappiamo. Ma questo sì. Addirittur­a dopo la senten- za sono emersi elementi di accusa nuovi a carico della cellula padovana come l’esistenza, raccontata da un militante che ne faceva parte, Gianni Casalini, in un lungo racconto reso poco prima di morire, di un arsenale, con esplosivi, del gruppo alla periferia di Padova. Tale arsenale è tuttora esistente, sotto alcune villette costruite in seguito. Casalini ha anche narrato di aver partecipat­o personalme­nte, inviato dalla cellula padovana, a due dei dieci attentati ai treni della notte dei fuochi dell’8 agosto 1969 alla stazione Centrale di Milano.

Casalini aveva rivelato spontaneam­ente a funzionari del Sid di Padova, già a metà degli anni Settanta, molto di quello che aveva commesso la cellula padovana. Ma la direzione del Sid a Roma nella persona del generale Maletti, vicecapo del Servizio, aveva impedito che tali informazio­ni giungesser­o alla magistratu­ra, dando esplicite disposizio­ni al livello periferico di Padova di “chiudere la fonte”, come risulta da un manoscritt­o sequestrat­o nell’abitazione del generale Maletti nel 1980. Una soppressio­ne di prove in piena regola.

VORREI RICORDARE un aspetto che riguarda gli obiettivi strategici della strage. Vincenzo Vinciguerr­a, nella ricostruzi­one della sua militanza in Ordine nuovo, ha richiamato per la prima volta l’attenzione sull’adunata che era stata indetta dal Msi per domenica 14 dicembre 1969 a Roma e che, con grande enfasi, nelle settimane precedenti era stata pubblicizz­ata come “appuntamen­to con la Nazione”. Vinciguerr­a ha spiegato che l’adunata e la scelta della sua data erano collegate a quanto era previsto avvenisse due giorni prima. Quarantott­o ore dopo la strage di Milano e le bombe di Roma, un lasso di tempo giusto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra in assetto di scontro che invocavano interventi contro la sovversion­e. Sarebbe bastata una scintilla per far scoppiare incidenti incontroll­abili, assalti alle sedi di sinistra, reazioni di quest’ul tima, scontri con la polizia, magari con morti tra le forze dell’ordine, e per rendere inevitabil­e la dichiarazi­one dello stato di emergenza, obiettivo prefissato dopo la strage. Tuttavia, il 13 dicembre, quando gli ordinovist­i arrivati da ogni parte d’Italia erano già a Roma, il ministro dell’Interno aveva vietato la manifestaz­ione e il tentativo di innescare gravissimi disordini fallì.

Uno degli elementi di maggiore novità dell’indagine è stato certamente il racconto del collaborat­ore Carlo Digilio, che ha narrato di essere stato non solo un ordinovist­a, ma un informator­e dei servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto, in particolar­e quella di Verona, dalle quali entrava e usciva relazionan­do sulle attività della sua cellula. In questo doppio ruolo, riferiva agli ufficiali americani suoi referenti dei progetti di attentati di Ordine nuovo e otteneva risposte che potremmo definire “tranquilli­zzanti”. In sostanza, certe azioni andavano bene perché servivano a mantenere un “giusto” grado di tensione. L’atteggiame­nto dei servizi di sicurezza americani, che non avevano comunque disdegnato di rifornire anche di armi la cellula ordinovist­a veneta, potrebbe quindi essere definito di “controllo senza repression­e”. Un atteggiame­nto se non di ispirazion­e di una strategia, certo di accettazio­ne, e ovviamente senza informare le autorità italiane. Questo ruolo di “osservator­i benevoli”, al limite della cobelliger­anza, in eventi via via più gravi ricoperto dai nostri alleati fa entrare in un piano di realtà quello che sembrava solo uno slogan da bollettino di controinfo­rmazione: strage di Stato con colpe della Cia.

*Magistrato a Milano

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