Il Fatto Quotidiano

Le famiglie in trappola nell’eterno presente

Il morbo Un colosso farmaceuti­co abbandona le ricerche. Storia di una famiglia come tante che continua a sperare nella scienza

- » SELVAGGIA LUCARELLI

Una delle principali industrie farmaceuti­che del mondo ha deciso di sospendere la ricerca sui farmaci per combattere l’Alzheimer. E allora vi racconto una storia – la mia – che probabilme­nte somiglia alla storia di tante persone che sperano che la scienza non le abbandoni.

“La nonna viene a stare da noi per un po’”. “Per un po’ quanto?”.“Per un anno”. Avevo 15 anni e quando mia madre mi annunciò la cosa e mi parve un’idea di quelle belle. Mia nonna (mamma di mia mamma) mi piaceva un sacco. Viveva a 600 chilometri da noi, era vedova da tempo di un uomo che era stato capitano di navi in giro per il mondo e la vedevo d’estate, quando mia madre lasciava me e i miei fratelli con lei in montagna. Aveva 80 anni ed era stata un donna molto bella, una stanga biondissim­a, occhi verdi, seno prorompent­e e carattere di ferro vagamente addolcito con l’età. Cucinava, lavorava a maglia, disseminav­a la casa di riviste tipo Gente e altre letture da signore annoiate. Era una donna di compagnia, mi diceva sempre che ero bella (“Hai un bel figurino!”) e in adolescenz­a era una carezza di quelle rassicuran­ti. Non capii fino in fondo perché mia nonna veniva a stare da noi. Un vago “sta poco bene” aveva risolto la mia curiosità.

MIA NONNA VENIVA a stare da noi perché aveva l’Alzheimer. Non poteva più vivere da sola. La mamma aveva deciso che lei e i suoi due fratelli l’avrebbero tenuta con sé un anno per uno. Noi eravamo i secondi. Io non avevo capito. E forse, nessuno di noi aveva capito cosa significas­se questa malattia il cui nome, che poi è il nome dello psichiatra tedesco che l’ha studiata per primo, ha il suono duro delle cose che non lasciano scampo. Quell’anno fu devastante. Per noi, per mia madre, per mia nonna.

È difficile spiegare cosa sia l’Alzheimer, quante sfumature contenga questa malattia. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. “Polpette, nonna!”. “Oh bene, mi sono sempre piaciute le polpette!”. Trenta secondi dopo. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. Io e miei fratelli, all’inizio, col sadismo tipico dell’adolescenz­a, ci ri- devamo su. Ogni tanto ci divertivam­o a darle le stesse notizia del tg ogni due minuti, per sganasciar­ci di fronte alla sua sorpresa sempre rinnovata. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviari­o?”. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviari­o?”. Una, due, tre, quattro volte di seguito. Finché non dimenticav­a tutto, per poi ricomincia­re. “Ehi nonna, sai che c’è stato un incidente ferroviari­o?”. Eravamo scemi, eravamo inconsapev­oli. Mia nonna non poteva capire cosa le stesse accadendo, ma poteva sentire. Sentiva che si annoiava, che la mente non le faceva più compagnia. Quando i ricordi si sgretolano, quando resta solo il presente, il presente va riempito. E quindi mia nonna iniziò a chiederci ininterrot­tamente “Posso fare qu al co sa? ”. Iniziava a fare qualcosa e poi dimenticav­a quello che stava facendo.

LA VEDEVAMO SMARRITA, in mezzo a un corridoio di una casa che tutti i minuti conosceva per la prima volta, con un piatto in mano. Un minuto prima le avevamo detto: “Sparecchia se vuoi!”, lei si lanciava sulla tavola e poi due passi dopo non sapeva più perché avesse un piatto in mano. E qui – è orribile da dire, ma i parenti dei malati di Alzheimer si scoprono delle persone orribili, talvolta – iniziò la nostra insofferen­za. “Fammi fare qualcosa!” era lo scoglio a cui si aggrappava per non farsi inghiottir­e dal buio della sua mente. Ed era il nostro incubo. Quelle domande ripetute erano una goccia cinese che caricava la nostra quotidiani­tà di nervosismo. Iniziammo a sbuffare, a risponderl­e male, qualche volta. O a ignorare le sue domande ossessive, che era anche peggio. A mia nonna si stava sgretoland­o anche il presente. Allora le affidammo i suoi amati ferri. Qualche go- mitolo colorato comprato a caso in una merceria. “Fammi una sciarpa!”, “Fammi un cappello!”, mentivamo. Il movimento dei ferri era una delle poche cose che non aveva dimenticat­o. Il suono delle due bacchette che si toccavano era la colonna sonora delle nostre giornate. Dei miei compiti. Delle serate davanti alla tv. Le sciarpe, i maglioni, i cappelli, mia nonna non li finiva mai. Ricordava la gestualità, ma non il disegno.

ALLORA IO E MIA MAMMA, quando lei andava a letto, le smontavamo quel ritaglio di maglia che aveva creato e il giorno dopo lei iniziava daccapo, senza ricordare, sorprenden­dosi dei gomitoli nuovi. Era una Penelope smemorata, mia nonna. Una Penelope da cui non sarebbe tornato nessuno. Da lei tutto andava via, si staccava, partiva. Poi non fu più autonoma in nulla.

L’Alzheimer è una malattia degenerati­va di quelle che corrono in maniera imprevista. Mia mamma le faceva il bagno. Le sentivo litigare. “L’acqua è troppo calda!”. “Mi fai male”. “Lo shampoo puzza!”. Per via della malattia, stava diventando capriccios­a, aggressiva. Mia mamma, che ne aveva patito la severità da bambi- na, rivedeva un film antico. Doveva improvvisa­mente trattare come una bambina una donna che non le aveva mai consentito di essere una bambina. L’Alzheimer polverizza o amplifica certi aspetti del carattere, è un perfido silenziato­re e un infame megafono, a seconda dei casi. Con mia nonna fu megafono. Era stata una donna dura, diventò “nemica”. Cominciò a svegliarsi la notte. Ci tiravano giù dal letto urla disumane. “Mi avete catturata!”. “Bastardi, mi tenete prigionier­a!”. “Dove sono?”. “Non mi toccare!” “Mi vuoi uccidere!”. Non ridevamo più. “Perché la nonna è diventata cattiva?”.

NESSUNO SA COSA sia davvero l’Alzheimer se non ci passa attraverso. Forse ci odiava, forse la odiavamo. Smise di farci ridere, smise di farci pena. Contavamo i giorni che mancavano alla sua partenza. Alla fine di quell’anno cominciò a non riconoscer­ci più. Mi scambiava per una cugina, per un’altra nipote. Non riconoscev­a più sua figlia, di tanto in tanto. Il suo fisico la teneva in piedi. Tutto quello che si sgretolava era nella sua testa. Poi arrivò il giorno in cui andò da ll’altro figlio, su un’iso la lontana, non la vedemmo più.

Morì un anno dopo. Quella notizia non ebbe il suono della notizia: per noi la nonna non c’era già più. Lei non ci riconoscev­a più, noi non la riconoscev­amo più. Sono passati trent’anni. C’è un’altra Penelope, nella nostra vita. Tutto sarà tristement­e uguale e anche diverso. Inatteso, atteso, cattivo e doloroso. E nonostante l’infame ci abbia trovati pronti, ci si sente anche noi, smarriti come in un corridoio, con un piatto in mano, fissando un quadro che non si conosce.

I PRIMI SINTOMI

“Avevo 15 anni quando venne a stare con noi: con mio fratello le ripetevamo il tg mille volte per scherzo”

LE DOMANDE OSSESSIVE “Chiedeva sempre di fare qualcosa: era il suo modo di non scivolare nel buio ma diventò il nostro incubo”

 ?? Ansa ?? Ricordi addioUna immagine del più celebre fumetto dedicato all’Alzheimer, “Rughe” di Paco Roca, edito da Tunué. Sopra, una coppia di anziani
Ansa Ricordi addioUna immagine del più celebre fumetto dedicato all’Alzheimer, “Rughe” di Paco Roca, edito da Tunué. Sopra, una coppia di anziani
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