Spielberg, Hanks e Streep ci ridanno la libera stampa
“La stampa deve proteggere i governati non i governanti”. Il film che non piacerà a Donald Trump è servito su un piatto d’oro da Steven Spielberg. The Post sembra confezionato per lui mentre, travestito dal suo predecessore Nixon, dichiara guerra alla stampa, ne impedisce l’entrata alla Casa Bianca, oltraggia il primo e sacrosanto emendamento della Costituzione del Paese di cui è presidente. Ben venga, dunque, questo nuovo tassello dell’ormai consacrato megafono cinematografico dei Padri fondatori: in gioco c’è il senso della più blasonata democrazia del mondo, niente di più e niente di meno.
Opera necessaria, The Post ha i tratti di un viaggio umanissimo, persino romantico, sulle tracce del diritto alla libertà di stampa con una risposta inequivocabile, “l’un ic o modo di difendere la libertà di pubblicare è pubblicare” e una nota a margine per nulla marginale: la scelta di perseguire tale difesa è partita dal coraggio di una donna, inizialmente timida e inadatta al suo ruolo, ma poi capace di prendere la giusta decisione.
IN ORDINE SPARSO, i numeri di The Post sono i seguenti: le 7 mila pagine dei Pentagon Papers (documenti secretati dal Dipartimento di Difesa americano dal 1950 al 1966 sulle vere ragioni del coinvolgimento Usa nelle guerre nell’Asia sud-orientale), i 21 anni di bugie perpetrate da 4 presidenti più uno ( Eisenhower, Truman, J. F. Kennedy, Johnson e Nixon), il 70% di vittime di guerra in meno se tali governanti fossero stati onesti, e un quotidiano – il Washington Post – il cui editore era, appunto, una donna. E non per ultimi, i 3 iconici premi Oscar (Spielberg, Streep e Hanks) riuniti affinchè questo importante tassello della storia del secondo Dopoguerra americano si trasformasse in un bellissimo film per tutti, lontanissimo dal saggio politico (non sarebbe Spielberg) ma anche dai freddi rigori deIl caso Spotlight, per quanto alla sceneggiatura coincida la stessa co- firma di Josh Singer. Senza negare nulla alla solida opera di McCarthy, quello del cineasta di Cincinnati è semplicemente un’altra cosa: se quello è un film di testa, questo è un film di e per il cuore.
Infatti, benché riferito a un lato oscurissimo della politica Usa, il primo elemento a risaltare dalla visione del 31° lungometraggio di Steven Spielberg è la conferma della centralità del pubblico nei suoi pensieri, il godimento degli spettatori attraverso il piacere di una visione intelligente. Il più grande raccontatore di storie della Hollywood contemporanea ha rispolverato il suo miglior pedigree “costitu- zionalista” ( Lincoln , Il ponte delle spie..) facendo duettare per la prima volta insieme il talento di Meryl Streep (ancora una volta inarrivabile, sottile, sfumata, sottratta agli eccessi ma intensa..) con quello di Tom Hanks, entrambi impeccabili nei ruoli di Katharine Graham e di Ben Bradlee, rispettivamente editore e direttore del Washington Post in quelle due settimane di giugno del 1971 quando i famigerati Papers vennero pubblicati. È quello lo spazio temporale di The Post benché il prologo sia situato nel cuore della giungla vietnamita nel 1966, quando l’allora soldato Daniel Ellsberg sottrasse di nascosto i copiosi documenti.
A DIRLA TUTTA, nelle sequenze iniziali Spielberg sembra autocitarsi ne Salvate il soldato Ryan ma l’impressione dura pochi minuti, tanti a collocarci nell’origine di una storia il cui scandalo va capito bene, americani e non. Illuminato dalle tinte soft del sodale Janusz Kaminski, il suo sguardo sceglie di sviluppare la storia negli interni, fluttuando fra i salotti bene frequentati da “K ay ” Graham (amica dei presidenti, segretari di Stato, editori, erede del padre e poi marito, questo nel 1963 morto suicida) e le frenesie delle redazioni, sia del New York Times – iniziale divulgatore della presenza dei Papers ma poi costretto a rinunciare alla pubblicazione per minacce governative – che e soprattutto del Washington Post, sulle cui pagine è alla fine destinato ad alloggiare lo scottante materiale. Assistendo a come Ellsberg viene in possesso dei Papers (il racconto qui è da thriller/say movie), il pubblico è subito testimone della verità, conosce la portata dei documenti, è invitato da Spielberg a salire sul carro della giustizia o ad uscire dalla sala cinematografica. D’altra parte l’esito della vicenda è Storia, e lo spoiler non ha ragion d’essere come divieto. La bellezza, ovvero la capacità del padre di
E.T. di rimanere se stesso, è anche la sua scelta di non rinunciare alla poesia “dei piccoli” benchè tutto attorno regni la crudeltà, vedi Schindler’s List: quella, ad esempio, di una bimba che vende limonate a 35 cents ai colleghi di papà Ben Bradlee chiusi nel salotto di casa mentre forsennatamente cercano di difendere la democrazia.