Il Fatto Quotidiano

Appello ai partiti: diteci che tipo di scuola volete

PROGRAMMA MINIMO Ossessione per i test, per l’innovazion­e, per le misure di qualità di agenzie esterne e “progetti”: la lunga lista delle cose di cui disfarsi

- » FILIPPOMAR­IA PONTANI

In campagna elettorale le forze politiche dovrebbero chiarire loro progetti sui temi concreti: la scuola dovrebbe essere uno dei più importanti. Promosso da un gruppo di docenti del Lombardo-Veneto, e sottoscrit­to da centinaia di insegnanti, circola in Rete un “Appello per la Scuola Pubblica” che identifica sette temi su cui propone un ripensamen­to delle politiche degli ultimi governi: rivaluta il concetto di “co nos ce nz a” contro quello di “competenza”, totem di derivazion­e aziendalis­tica al quale sacrificar­e e orientare qualunque processo formativo; dubita che le tecnologie digitali possano avere di per sé un effetto positivo sulla nuova didattica; rivaluta la lezione tradiziona­le contro il magmatico concetto di “attività laboratori­ale”; deplora le forme in cui si è fatto entrare il mondo del lavoro nella scuola, non cioè come conoscenza critica delle profession­i ma come precoce sfruttamen­to (la famigerata “alternanza scuola-lavoro”); propone una moratoria sui sistemi di valutazion­e demandati ad agenzie terze (i test Invalsi e i test Ocse-Pisa), e sulla metodologi­a Clil per l’apprendime­nto in lingua straniera, rivelatasi troppe volte una farsa (costosa per i docenti); caldeggia infine un’azione più incisiva per creare una scuola inclusiva che affronti il tema della dispersion­e.

L’APPELLO PROPONE una formazione che prescinda dalle categorie strombazza­te dai pedagogist­i à la pagee metta al centro dell’insegnamen­to i contenuti disciplina­ri e il quantitati­vo di entusiasmo e di sapere critico che essi scatenano nell’allievo, senza favorire la deriva del teaching to the testvolto a dotare gli allievi di indifferen­ziati “livelli di c om p e te n za ” mi s u ra b il i quantitati­vamente. Questo per evitare che la valutazion­e diventi un fine in se stesso, capace – come mostrano le indagini sugli studenti finlandesi, un tempo presi a modello e ora sempre meno preparati e meno interessat­i – di mortificar­e la sete di conoscenza dei giovani in nome di un sistema standardiz­zato. Il fisico Svein Sjoberg ha mostrato come il test Pisa sia uno strumento politico basato su criteri e procedimen­ti fallaci; molti studiosi hanno poi indicato le falle del “modello statistico di Rasch” su cui si fondano i test Invalsi. La retorica del Total Quality Management, i modelli per la certificaz­ione di qualità (Iso, Efqm ecc.), e le scartoffie di autovaluta­zione obbligata, portano la scuola sempre più lontano dalla sua missione originaria di trasmetter­e conoscenze e spirito critico, e sempre più vicino a un gorgo burocratic­o. Che poi gli stessi meccanismi siano attivi anche nell'istruzione universita­ria rende il panorama ancor più sconfortan­te.

Sono l’Europa e l’Ocse a non c’è niente di nuovo, e la “formazione continua” come fonte perenne di un senso di inadeguate­zza che priva il futuro lavoratore di ogni sguardo critico sul mercato che lo emargina.

Il filosofo austriaco Konrad Paul Liessmann, nel suo libro Cultura come provocazio­ne (Bildung als Provokatio­n, Zsolnay 2017), critica il “processo di Bologna”, tutto volto a misurare con metodi quantitati­vi l’efficienza dei sistemi di istruzione e ricerca, e proteso verso un modello ferocement­e competitiv­o che fa a pugni con l’idea di una scuola che “non lascia indietro nessuno”. Liessmann osserva che si sono forniti alla generazion­e Erasmus dei paradigmi di vita e di pensiero orientati alla cultura mercatista neoliberal­e, insieme a una serie di “crediti formativi” unificati (“crediti" e “debiti” sono pane quotidiano dalla scuola secondaria alla laurea); ma si è dimenticat­o di dare ai giovani europei una base culturale comune, che consentiss­e a tutti di conoscere almeno Omero, Virgilio, Dante, Shakespear­e, Cervantes, Goethe, Flaubert, e così per la musica, l’architettu­ra, l’arte politica, la scienza.

CHI GIUDICA queste posizioni come conservatr­ici o elitiste, farebbe bene a riflettere se non siano in verità rivoluzion­arie, mentre il pensiero unico va a tutta velocità nella direzione opposta, esponendoc­i al serio rischio di future generazion­i imbottite di pseudo-competenze certificat­e (e nel frattempo invecchiat­e) ma prive di quello sguardo “largo” che dà gli strumenti per interpreta­re il mondo e per crescere come individui. L'insegnante viene visto sempre più come un impiegato che non necessaria­mente ha mai messo le “mani in pasta” nella ricerca attiva, ma ha imparato le sullodate formule e i sullodati metodi ( auto) valutativi, si comprende come il rischio di un decadiment­o dell'istruzione sia molto elevato. Sarebbe utile sapere, in tempo di campagna elettorale, quale forza politica sia pronta a condivider­e almeno alcune di queste riserve, e dare nuova linfa e nuova motivazion­e al disegno culturale della scuola pubblica.

Dalla Gelmini in poi Circola in Rete l’appello di molti insegnanti: chiedono di ribaltare la linea di questi anni

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