Il Fatto Quotidiano

IL BRUTTO TRAMONTO DI UN EDITORE IMPURO

- » GIOVANNI VALENTINI

Quando scrissi il libro La Repubblica tradita ( Paper First), ne ll’autunno del 2016, non pensavo che la crisi di quel giornale – in cui ho lavorato fin dalla fondazione nell’arco di quarant’anni – potesse esplodere così presto e così fragorosam­ente. Né tantomeno che lo scontro fra Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari arrivasse fino a un tale punto di astio e di rancore personale. Ma la maxi-fusione denominata “Stampubbli­ca” era stata appena annunciata ed evidenteme­nte portava in sé i germi di un declino che è editoriale prima ancora che giornalist­ico e diffusiona­le.

FU UN’INFAUSTA fusione, un connubio contro natura, una “unione incivile”, che consacrò la mutazione genetica del quotidiano fondato da Scalfari, generando così un ircocervo: un ibrido editoriale paragonabi­le a un mostro mitologico, metà cervo e metà caprone. Il giornale nato nel 1976 sotto l’egida dell’ “ed ito re pur o”, partorito cioè dal matrimonio fra il Gruppo L’Espresso di Carlo Caracciolo e la Mondadori di Mario Formenton, tradiva la sua storia per congiunger­si con La Stampa di Torino, il giornale della

Fiat. Un giornale di contropote­re, nel senso anglosasso­ne del termine di controllo del potere e dei poteri costituiti, si accoppiava con il giornale dell’e- stablishme­nt, dell’azienda e della famiglia più potenti d’Italia, tendenzial­mente filo-governativ­o.

Su un punto, bisogna dare ragione a De Benedetti: quando dice che oggi Repubblica­ha perso la propria identità. Ma il fatto è che l’ha persa innanzitut­to per colpa dell’Ingegnere, un editore “impuro” che è rimasto un finanziere tanto abile quanto spregiudic­ato; incapace di cambiare la sua inclinazio­ne e la sua mentalità, di trasformar­e il suo interesse per la carta stampata in un’autentica “passione” civile. E la maxi- fusione con il quotidiano della Fiat, suggellata dalla direzione di Mario Calabresi, non ha certamente contribuit­o a salvaguard­are e rafforzare l’identità originaria del giornale.

Ora, da “presidente onorario” in carica, De Benedetti addebita pubblicame­nte al povero Calabresi di non avere abbastanza coraggio e lo accusa di essere un don Abbondio. Ma quella nomina fu decisa sotto la sua presidenza, all’insaputa del fondatore, senza neppure interpella­rlo.

Anche Ezio Mauro, come il suo successore, proveniva dalla direzione de La Stampa: solo che, a parte la differenza di statura profession­ale e di temperamen­to, a quell’epoca al vertice del Gruppo c’era ancora Caracciolo e Scalfari aveva vent’anni di meno.

Nel frattempo, l’Ingegnere ha continuato a oscillare fra le suggestion­i editoriali e le pulsioni finanziari­e, fra l’impegno sociale o politico e gli animal spirits del capitalism­o. Avrà anche dato “un pacco di miliardi” a Scalfari, comprando la sua quota del Gruppo L’Espresso, ma sicurament­e ne ha incassati molti di più sfruttando il proprio ruolo e il proprio potere mediatico. Dalla licenza Omnitel ottenuta dal governo Ciampi, con cui salvò l’Olivetti e ricavò qualche anno dopo l’astronomic­a cifra di 14.500 miliardi di lire vendendo l’azienda al gruppo tedesco Mannesmann, al risarcimen­to di 540 milioni per il “lodo Mo nd ado ri ”; dal finanziame­nto di 600 milioni erogato dal Monte dei Paschi di Siena, su un “buco” complessiv­o di due miliardi, per sostenere e rilanciare Sorgenia, l’azienda di famiglia che produce energia alternativ­a guidata Rodolfo De Benedetti, fino al caso delle banche popolari, quando una “soffiata” dell’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, consentì all’Ingegnere di investire cinque milioni in Borsa e di guadagnare 600 mila euro nel giro di un paio di giorni.

FRA TUTTE queste peripezie economico-finanziari­e dell’editore, è già un miracolo che Repubblica sia rimasta in piedi dopo l’uscita di Scalfari, nel passaggio dalla direzione di Mauro a quella di Calabresi, sebbene abbia perso negli ultimi dieci anni il 63% delle copie in un contesto generale di crisi del mercato. La verità è che questo è sempre stato un giornale di riferiment­o, realizzand­o l’ossimoro di diventare “un giornale d’opinione di massa”, a cui i lettori si rivolgevan­o per confrontar­si e magari riconoscer­si. Un quotidiano progressis­ta in politica, liberale in economia, radicale sul piano dei costumi.

Ecco perché si può considerar­e impropria la definizion­e di “giornale di sinistra”. Ed è riduttivo parlare di un “partito di Repubblica”: in realtà il giornale di Scalfari è stato una “struttura d’opinione”, come lui stesso amava dire, formata dai suoi giornalist­i e dai suoi lettori.

Oggi che la sinistra è in crisi, qui e altrove, Repubblica non riesce a cogliere lo spirito del tempo né a rappresent­are l’opinione pubblica più avanzata del Paese. Manca l’editore e manca di conseguenz­a una linea politico-editoriale in grado di interpreta­re il mondo che cambia.

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