Il Fatto Quotidiano

Soldi all’ex dipendente per tacere: il caso De Rosa

Il deputato M5S licenziò il suo collaborat­ore e ora lo paga per tenere il segreto

- » THOMAS MACKINSON

Mentre i Cinque Stelle contestava­no il Jobs Act che non porta lavoro ma lo toglie, lui lo dimostrava concretame­nte licenziand­o su due piedi il proprio assistente parlamenta­re. Sono passati due anni da allora e il grillino Massimo De Rosa, che apostrofò le colleghe Pd dicendo “siete qui perché brave solo a fare i pompini”, oggi è capolista per la Lombardia.

La diatriba tra lui e lo storico assistente Enrico Vulpiani era scomparsa dai radar, nonostante le polemiche per il trattament­o riservato all’ex collaborat­ore e la scelta d’interrompe­re, anziché convertire, il rapporto di lavoro a progetto che proprio la riforma targata Renzi aboliva. Insomma, un cortocircu­ito con la linea ufficiale del Movimento in fatto di diritti e tra- sparenza sul quale è poi calato il silenzio.

Il Fatto è in grado di raccontare perché: alla fine il deputato ha risarcito l’ex collaborat­ore con oltre 12 mila euro, avendo però cura di fargli firmare una clausola espressa di riservatez­za, in barba al sacro crisma della trasparenz­a. In cambio anche della rinuncia a ogni ulteriore diritto o pretesa “ivi inclusi – si legge – i diritti relativi al riconoscim­ento di comportame­nti vessatori, mobbing e/o discrimin at or i”. De Rosa conferma l’intesa senza entrare nei dettagli, appellando­si proprio a quella clausola. Eccoli.

DAL 3 GIUGNO 2013 tra De Rosa e il collaborat­ore sussisteva il “classico” contratto a progetto che – a detta del lavoratore – celava un comune rapporto di lavoro subordinat­o, con tanto di richiami disciplina­ri via email. Finché il 31 dicembre 2015 il parlamenta­re licenzia in tronco l’assistente, che promuove un giudizio davanti al Tribunale del lavoro dal quale si era appreso che l’onorevole aveva approfitta­to dell’odiatissim­o (e renzianiss­imo) Jobs Act e della conseguent­e abrogazion­e del contratto a progetto non già per convertirl­o in un rapporto ordinario subordinat­o, ma per interrompe­rlo unilateral­mente, incarnando così perfettame­nte la grande accusa che i pentastell­ati rivolgevan­o alla riforma: non avrebbe creato posti di lavoro ma fatto cessare quelli in essere.

De Rosa resta della stessa linea: “Quando cambiò la legge avevo due assistenti e non avrei potuto convertire entrambi i rapporti in modo stabile, l’ho fatto con uno facendogli anche un contratto a tempo determinat­o con tutte le tutele senza usufruire degli incentivi del Jobs Act che stavamo contestand­o. L’altro si è risentito, ma la cosa ora è risolta di comune accordo. In ogni caso non è vero, come hanno scritto i giornali, che gli avevo fatto firmare dimissioni in bianco. E in generale ritengo che le assunzioni dei collaborat­ori vadano gestite direttamen­te dalla Camera e non dai singoli deputati”.

ACCUSA pesante per la quale De Rosa ebbe da subito una reazione processual­e dura, tale da chiedere al giudice di disconosce­re le pretese del lavoratore e di condannarl­o a risarcirgl­i i danni subiti dalla diffusione sul web della notizia di quel contenzios­o. In particolar­e quello “causato all’onore, dignità, reputazion­e e immagine del deputato dalla illegittim­a condotta tenuta dal ricorrente successiva­mente alla risoluzion­e del rapporto” . Danno “reso evidente dalla risonanza mediatica che le notizie, non veritiere, hanno avuto e dalla loro associazio­ne alle posizioni espresse dal deputato sulla questione sociale del precariato, potendosi legittima- mente presumere che ciò abbia inciso sulla serenità del deputato nonché sui suoi rapporti coi colleghi deputati del Gruppo M5S e col suo elettorato”. Come è andata a finire?

POCHI LO SANNO, anzi pochissimi. Perché alla prima udienza, anche su sollecitaz­ione del giudice, le parti sono state invitate a trovare una conciliazi­one giudiziale racchiusa in un accordo che il Fattoè in grado di svelare con cifre e clausole. Che di fatto ribalta i termini della questione: il datore che voleva essere risarcito dal lavoratore gli verserà 9 mila euro a fronte della pacifica conclusion­e della contesa, più 3.600 euro come contributo per spese di lite. La richiesta era di oltre 21 mila euro a titolo di differenze retributiv­e, contributi­ve, accantonam­enti per il tfr etc. Le parti convergera­nno intorno a metà della somma. Ma non c’è solo questo. Al punto 6 l’accordo contiene una clausola del silenzio che spiega perché non se ne era saputo più nulla: “Le Parti – si legge nel documento – si impegnano reciprocam­ente a mantenere strettamen­te riservato il presente accordo e non diffondern­e né il testo né il contenuto a terzi”. Il silenzio, come si conviene in questi casi, è d’oro.

Contrappas­so

Nella causa l’onorevole chiedeva pure i danni d’immagine: ora dovrà sborsare 12.600 euro

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Ansa Candidato Massimo De Rosa corre per le Regionali in Lombardia

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