Con le larghe intese riecco anche le “riforme”
Metti una sera Illy da Lilli: l’ex governatore del Friuli, lunedì è ospite di Otto e mezzo. Per quelli che ancora non lo sanno, dopo un decennio di lontananza dalla politica, il re del caffè è tornato e si candida come indipendente del Pd al Senato. In apertura di trasmissione si apprendono le ragioni della scelta: “L’economia va bene, la parte politica meno. Mi sono detto: visto che ho molta esperienza come imprenditore, ma anche come politico, è il caso di contribuire a sanare questa frattura tra il mondo reale e quello delle istituzioni. Evidentemente i cittadini non capiscono la politica o viceversa la politica non capisce i cittadini”. Più avanti, durante la discussione in studio con Alessandro Sallusti e Antonio Padellaro, si affrontano gli scenari del post voto, in particolare l’ipotesi di un secondo governo Gentiloni, assurto addirittura al ruolo di “riserva della Repubblica.” Va bene, ma con quale maggioranza, chiede giustamente la padrona di casa? Gentiloni, bisogna sapere, è il nome giusto per guidare un “governo di transizione, composto da forze non antisistema”, spiega Illy. “Partiti che vogliano fare le riforme, io auspico anche la riforma costituzionale che non era passata al referendum, ma che io ritengo urgente e necessaria”. E naturalmente la legge elettorale da modificare subito. E chi meglio di un “governo di larghe intese può cambiare Costituzione e sistema elettorale, le famose ‘regole del gioco’”? Non è stato un déjà vu collettivo, l’ha proprio detto così.
SULLA STESSA RETE da Giovanni Floris, martedì sera siedono uno di fronte all’altro Eugenio Scalfari e Matteo Renzi. Il vecchio fondatore, che vuole fare domande al giovane segretario, torna al 4 dicembre 2016: “Il referendum era eccellente. Io personalmente avevo dei dubbi. Poi venne a trovarmi Romano Prodi, di cui sono amico...”. Seguirebbe una dissertazione su tutti quelli che Scalfari ha conosciuto bene (altro che Carlo De Benedetti, è il sotto testo), ma la memoria ahinoi, non aiuta il novantaquattrenne. Che è costretto a continuare con la “domanda”:“Prodi disse che bisognava votare sì, perché in nessun Paese d’Europa entrambe le Camera danno la fiducia”. Potrebbe mica essere la riforma costituzionale l’ultima carta della campagne elettorale chiede Floris. E Renzi, che deve aver esaurito le tendenze suicide con la commissione banche, ci va cauto: “Se c’è uno che non è adatto a riparlare di referendum costituzionale sono io, mi hanno accusato di eccessiva personalizzazione”. Ma, attenzione: “Se nei prossimi mesi crescerà la consapevolezza che non possiamo andare avanti con questo bicameralismo, io sarò ben contento a dare una mano, ma certo non in prima linea. Io ho già ampiamente dato”. Anche noi abbiamo dato, verrebbe da dire ripensando a quei 20 milioni di italiani che hanno detto no alla riforma Boschi (che certo non si esauriva nel limitare il rapporto fiduciario con il governo alla sola Camera dei deputati, ma sfigurava un terzo della Carta). Poi però abbiamo capito: vuoi vedere che le ragioni della “frattura tra istituzioni e cittadini” di cui parla Illy vanno da ricercare proprio qui? In questo popolo che ostinatamente si ritiene sovrano e, a scadenze decennali, ribadisce che non vuol vedere manomessa la propria Costituzione (in quei modi). Nessuno pensa che la Carta sia intoccabile: la fiducia da parte di una Camera sola, per esempio, è una riforma che avrebbe molti consensi, e basterebbe una leggina costituzionale. Riproporre una riforma- monstre come l’ultima sarebbe un atto di arroganza inaudito: altro che frattura con i cittadini. Qui si vuol negare la sovranità che secondo l’articolo 1 “appartiene” al popolo (verbo scelto dai costituenti proprio perché definisce una condizione certa).