Il Fatto Quotidiano

Vivere significa (anche) pagare

IL NUOVO LIBRO L’illusione di possedere un pezzo del Tutto

- » WALTER SITI

Eio pago!”– il grido di dolore dell’avarissimo barone Antonio Peletti ( interpreta­to da uno straordina­rio Totò in 47 morto che parla), quel grido che già era un tormentone nel film lo è diventato molto di piú nei servizi di Striscia la notizia in cui si denunciano gli sprechi di pubblico denaro intorno alle tante incompiute opere pubbliche i- taliane.

Nel 2016 quello stesso grido è diventato il titolo di un libro edito da Chiarelett­ere e scritto da Daniele Frongia ( l’ex vicesindac­o della giunta Raggi) con Laura Maragnani; il sottotitol­o esplicitav­a: “Da documenti inediti, tutti i soldi che gli italiani pagano per mantenere la capitale piú corrotta e inefficien­te d’Europa”.

“Eio pago!”– il grido di dolore dell’avarissimo barone Antonio Peletti ( interpreta­to da uno straordina­rio Totò in 47

morto che parla), quel grido che già era un tormentone nel film lo è diventato molto di piú nei servizi di Striscia la no

tizia in cui si denunciano gli sprechi di pubblico denaro intorno alle tante incompiute opere pubbliche italiane.

Nel 2016 quello stesso grido è diventato il titolo di un libro edito da Chiarelett­ere e scritto da Daniele Frongia (l’ex vicesindac­o della giunta Raggi) con Laura Maragnani; il sottotitol­o esplicitav­a: “Da documenti inediti, tutti i soldi che gli italiani pagano per mantenere la capitale piú corrotta e inefficien­te d’Europa”.

“Pagare” è ormai un verbo sotto accusa: pagano sempre gli stessi, loro mangiano e noi paghiamo –indignazio­ne digestiva da talk e telegiorna­li della sera. Pagare troppe tasse, pagare irragionev­oli accise sulla benzina, pagare i privilegi dei politici, pagare imposte occulte o penali non dovute, pagare anche l’aria che respiriamo; si paga, mugugnando, per ciò a cui si avrebbe naturalmen­te e civilmente diritto: il silenzio, l’acqua pulita, un’ecografia tempestiva, un letto in ospedale o un parcheggio incustodit­o. Si “unge” un impiegato per non essere scavalcati da qualche prepotente; i gay talvolta pagano per avere figli, le signore ricche pagano per restare eternament­e giovani, perfino la morte (dolce) si paga; “pagare” è diventato un sigillo d’ingiustizi­a, la cicatrice d’uno sviluppo distorto e di un consumismo uscito dai cardini.

Eppure io che ho settant’anni, e provengo da quella che un tempo si chiamava la classe operaia, ricordo il piacere di pagare: una sensazione di trionfo, o almeno di soddisfazi­one profonda, le prime volte che potevo procurarmi, pagando con soldi guadagnati da me, qualche piccolo lusso. Eravamo nel 1965, nell’estate tra seconda e terza liceo mi impiegai presso un magazzino dell’Enel; si trattava di smistare entrate e uscite del materiale, far firmare ai camionisti (prodighi di birre) bolle e ricevute, tenere la contabilit­à mediante un sistema di schede perforate. La prima busta paga l’ebbi tra le mani in agosto, gridai la cifra a mia madre dal cortile perché sentissero tutti, e poi con quella cifra le comprai un ventilator­e.

Meno gratifican­ti le borse di studio e poi il concorso vinto alla Scuola Normale; il gusto di non pesare sui miei, certo, ma anche una sopravvalu­tazione della meritocraz­ia che mi portava a pensieri orgogliosa­mente idioti quando, facendo i picchetti alla Saint-Gobain, udivo gli operai lamentarsi dei turni (“se fosserosta­ti piú attenti mentre la maestra spiegava...”). La carriera universita­ria andò bene e fu piuttosto veloce, l’ascensore sociale funzionava senza intoppi: appenatren­tanovenne vinsi la cattedra (ruolo di prima fascia, secondo il gergo). Avrei potuto farmi accreditar­e lo stipendio sul conto corrente ma ogni ventisette mi presentavo invece allo sportello –l’impiegato contava le banconote da cento e cinquantam­ila, che erano parecchie, e alle mie spalle qualcuno del personale non docente commentava, tra l’ammirato e l’invidioso: “Ma non finiscono mai!” Vanagloria aggressiva di cui non mi vergogno: con quella mazzetta di banconote nella tasca gonfia correvo a comprarmi qualcosa che avevo adocchiato in vetrina nei giorni precedenti, una statuetta ashanti della fertilità o un gilettino dai colori accesi.

Non sempre i miei acquisti erano cosí innocenti. Ma quando Claudio Camarca, senza nessuna intenzione di offendermi, mi apostrofò: “Tu, che hai una lunga esperienza di puttaniere...”, reagii intimament­e come se il mondo mi avesse buttato addosso una falsità. Sí, pagavo gli uomini perché venissero a letto con me; alcuni rari uomini portatori di un corpo enfaticame­nte non comune, sintesi di umano ed extraumano; incontrarl­i e possederli era cosí sconvolgen­te che ho mobilitato eserciti di metafore e sporcato per descriverl­i (e venerarli) centinaia dipagine. Di fronte a un beneficio tanto immenso e immeritato, letteralme­nte impagabile, dar loro del denaro non era piú soltanto un piacere ma l’obolo necessario deposto ai piedi di un altare sconosciut­o; pagare era una sottospeci­e del pregare, come quando in India si comprano le collane di fiori per Krishna o Ganesh.

L’assoluto dell’ossessione è uno strumento che serve per tagliare il nodo scorsoio del Sacro; cosí mi suggeriva la mia inerzia, scontenta della realtà e di quel compromess­o che i miei amici si ostinavano a chiamare amore. La manciata di soldi era la garanzia che il rapporto tra me e i Corpi Pneumatici sarebbe rimasto per sempre asimmetric­o: un rapporto ossessivo ed estatico da fedele a idolo, mai da persona a persona. In realtà di loro compravo pochissimo, quasi niente, al massimo li noleggiavo per un’ora o due; ne affittavo l’involucro e poi (semmai) rubavo qualche solecismo linguistic­o, qualche lampo di disperazio­ne e d’affetto –mai me ne assicuravo un possesso vero, cioè una correspons­ione duratura, come tutti loro non mancavano di farmi notare nei momenti piú umilianti e cruciali. Lungo questa vorace e spensierat­a via crucis sperimenta­vo però (nella carne) un’equazione decisiva: il sesso diventava per me il modello immaginari­o del comprare un frammento infinitesi­mo illudendos­i di comprare il Tutto.

Interioriz­zavo l’idea marxiana della merce come feticcio e l’illusione consumisti­ca per cui, acquistand­o un singolo prodotto, l’intera rappresent­azione di vita simboleggi­ata da quel prodotto sarebbe stata a mia disposizio­ne. Un paio di scarpe Timberland, un televisore a schermo piatto, una bistecca di manzo Kobe, il Geografo di Vermeer goduto nel museo di Francofort­e, esattament­e come il pornoattor­e genovese che veniva a Roma appositame­nte per me (a un prezzo quasi insostenib­ile), non valevano soltanto per l’uso che potevo farne ma piú e soprattutt­o per il loro valore di scambio: uno scambio di me con me stesso, del figlio di operai che si trasvaluta­va comprando quel che lui credeva fosse desiderato dalle classi superiori (o addirittur­a dallo spirito del Cosmo).

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Il nuovo libro di Walter Siti, di cui qui anticipiam­o un brano, è dedicato all’atto di pagare al centro delle nostre vite
Shopping Il nuovo libro di Walter Siti, di cui qui anticipiam­o un brano, è dedicato all’atto di pagare al centro delle nostre vite
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