Pil e lavoro, perché i dati non premiano il Pd
I numeri dell’Istat confermano le stime del governo sulla crescita, ma resta il divario con l’Ue
Ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha potuto esultare, e con lui il Pd, per i dati diffusi dall’Istat su occupazione e crescita. Il Pil nel 2017 è cresciuto dell’1,5%, l’aumento “più alto dal 2010”, confermando la previsione del governo inserita nei documenti ufficiali. Dopo il calo del mese scorso a gennaio 2018 la stima degli occupati torna a crescere (+0,1%, pari a
+25 mila rispetto a dicembre). “Sono dati frutto del lavoro fatto in questi anni”, ha commentato Padoan. Un punto a favore dei dem a due giorni dalle elezioni, eppure già le stime provvisorie del Pil comunicate due settimane fa, prima del silenzio elettorale sui sondaggi, non avevano premiato la maggioranza di governo, così come i dati sul lavoro. Un fenomeno che potrebbe avere diverse spiegazioni dalla lettura dei dati.
LA PRIMAÈ nel terreno perso rispetto al periodo pre-crisi e nel divario con il resto dell’Eurozona. Dal 2007 al 2013, il Pil italiano s’è contratto di quasi il 10%. Da allora l’economia è in ripresa, ma ancora del 5,4% sotto i livelli pre-crisi. Dal 2008 il divario rispetto all’Eurozona si è ampliato a 13 punti percentuali. La disoccupazione è invece passata dal 5,7% di aprile 2007 al 13,0% di novembre 2014. Da allora è “s ce sa” all ’ 11,1% di gennaio scorso. Se la crescita “è frutto delle riforme fatte”, come sostiene il governo, non è chiaro perché resti la più bassa dell’Ue. L’Italia, come gli altri Paesi dell’Unione, sembra andare a rimorchio di una congiuntura economica favorevole.
Anche i dati sul lavoro sono in chiaroscuro. Il tasso di occupazione sale al 58,1% e in un anno gli occupati crescono di 156 mila unità (grazie alle donne) ma salgono solo quelli a termine (precari): +409 mila, mentre quelli a tempo indeterminato - che il Jobs act doveva spingere con il contratto a tutele crescenti (ma senza articolo 18) - calano di 62 mila unità.
L A S ECONDA spiegazione è nella stretta fiscale che gli ultimi governi hanno portato avanti ( seppure con margini di flessibilità ottenuti in sede europea). L’avanzo primario (il saldo positivo tra entrate e uscite dello Stato al netto del costo del debito) è passato da ll ’ 1,5% del Pil del 2015 all’1,9% del 2017. L’austerità fiscale deprime la crescita e politicamente presenta sempre il suo conto. La stretta ha permesso al governo di centrare - per la prima volta - la previsione di un calo del rapporto debito/Pil, che passa dal 132% del 2016 al 131,5 del 2017. Per centrarlo il Tesoro è ricorso alla liquidità di cassa per ridurre lo stock di debito, una mossa che rischia di lasciare il Paese con poche munizioni in caso di turbolenze finanziarie.
C’è poi un altro problema: il debito potrebbe salire di 5-6 miliardi, vanificando l’obiettivo di iniziare la discesa, se l’Eurostat richiedesse l’inclusione nel debito delle garanzie pubbliche stanziate dal governo per i salvataggi bancari (se accadesse, salirebbe anche il deficit/Pil). Per fortuna del Pd la decisione arriverà comunque dopo le elezioni.
Effetto Jobs act? La crescita annua degli occupati è dovuta solo ai precari (+403 mila), calano gli “stabili”