Che ho fatto di male per meritare questo?
In libreria Un corpo a corpo fisico e metafisico tra chi è colpito da una malattia e il destino. È il tema letterario del 2018
Perché proprio a me? Deve essere questa una delle domande che rimbombano dentro la testa dei malati gravi, quando la routine quotidiana si frantuma e si ritrovano, stupefatti e impauriti, a camminare sul baratro, nel tentativo strenuo e disperato di evitare il precipizio fatale.
Virginia Woolf in un suo saggio del 1926 intitolato Sulla malattia lamentava che nell'ambito della letteratura si fosse dato poco spazio a questo tema e cinquanta anni dopo Susan Sontag ne La malattia come metafora rispondeva a quella fatidica domanda: “Perché proprio a me?” sostenendo che nella coscienza del malato spesso si mette in relazione il morbo con la colpa. “Che cosa ho fatto di male? Dove ho sbagliato? Chiunque si ammali sul serio si fa questa domanda, più o meno consciamente, con maggiore o minore urgenza”, così si arrovella Lea Vincre, la protagonista di Storia della mia ansia ( Mondadori, pp. 192 euro 19), ultimo romanzo di Daria Bignardi.
È UN QUESITO al quale nel tempo si sono date risposte differenti. Lo “scandalo della malattia”, del “lato notturno della vita”, per dirla alla Sontag, trova una sua radice spesso morale o comportamentale: per esempio Kafka attribuiva la tubercolosi polmonare di cui soffriva a uno strabordare nella propria devianza mentale; così Lea Vincre tenta di individuare il fattore scatenante del proprio tumore nello stress dovuto alla carriera in teatro o nell’infelice e imprescindibile rapporto matrimoniale con Shlomo.
Ovviamente simili big bang di catastrofi cellulari non sono dimostrabili. L’origine clinica e il destino si fondono in un unico orrido risultato: ci si trova in una situazione in cui si rischia la morte. E allora si lotta, si combatte. La descrizione di questo corpo a corpo fisico e metafisico è l’oggetto di alcune delle più interessanti narrazioni di questo inizio 2018.
Oltre a Storia della mia ansia, lo hanno affrontato da altri versanti e punti di vista La linea verticale, romanzo ( Baldini+ Castoldi, pp. 137, euro 16) e serie televisiva di Mattia Torre, e Le stanze dell’addio di Yari Selvetella ( Bompiani, pp. 192, euro 15).
Questi tre titoli hanno in comune un elemento: l’as-- senza di retorica, di patetismo edulcorato, della banalizzazione e della svendita del dolore. Poi ci sarà sempre chi si interesserà morbosamente al fatto che Bignardi e Torre abbiano davvero affrontato un tumore o che Selvetella abbia perso la compagnia nel giro di pochi mesi.
Ma la limpidezza di questi tre racconti consiste nel superare l’elemento melodrammatico attraverso la forma della narrazione. Si comincia con la scoperta diagnostica e la consapevolezza: “Il buono di una malattia è che capisci cosa viene prima. Lo senti senza più incertezza, ed esci dalla ruota del criceto”, è sempre Lea a parlare.
È lo scarto improvviso, che ti fa capire che rischi di non avere più quello che avevi prima.
Puoi essere un padre di famiglia, come il Luigi di Torre o l’uomo con i baffi di Selvetella, essere in vacanza al mare o su un paesaggio polare e in pochi giorni la tua vita cambia. E quella monotonia, quel peso, quei litigi, quelle incomprensioni diventano un’oasi agognata alla quale tornare.
Torre e Bignardi affrontano il racconto dal punto di vista del malato, Luigi e Lea, all’interno della struttura ospedaliera o dentro case fuori città. Sono quelle le trincee dalle quali combattere.
Lea scopre di essere “prigioniera” dalla prima chemioterapia e la dottoressa Parenti sostiene che non si prendono decisioni in tempo di guerra. Persino l’esergo di Storia della mia ansia è tratto da La guerra non ha un volto di donna di Svetlana Aleksievic. Anche in Torre riecheggia la metafora bellica: la moglie di Luigi lo incita, gli sorride, non deve preoccuparsi, il tumore è un piccolo stato provocatorio che sta attaccando loro, una grande nazione potente, e loro gli faranno il culo.
EPPURE PROPRIO in quella metafora bellica non è compreso un elemento sostanziale che nella guerra manca: la “colla emotiva”. Se pensiamo a romanzi come Kr ieg di Ludwig Renn o Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque sono storie deprivate di sentimenti, dove non l’umanità è scomparsa davanti alla brutalità. Invece Bignardi, Torre e Selvatella pulsano di pietas, di comprensione, di compassione.
E di resilienza, cioè la capacità di un individuo di superare un evento traumatico. Resistono i malati superstiti, resistono le persone che sono state vicine ai ma- lati che non ce l’hanno fatta. L’uomo con i baffi di Selvetella deve affrontare un poetico e appassionante viaggio dantesco attraverso le stanze del dolore, del lutto, del ricordo ospedaliero, e in qualche modo rinasce. Rimane in vita, provando a ricucire gli strappi del dolore, con una consapevolezza in più: che il suo è un privilegio, quasi un incarico etico come quello che avrebbero tutti i sopravvissuti.
Classici contro moderni Virginia Woolf in “Sulla malattia” lamentava che in letteratura si fosse dato poco spazio al tema